mercoledì 28 dicembre 2011
PAESAGGIO E FOTOGRAFIA
Nel 1863, il fotografo inglese Samuel Bourne effettuò il suo primo viaggio sull'Himalaya. La sua spedizione contava trenta portatori, impegnati per lo più a trasportare le provviste e l'enorme attrezzatura che accompagnava i fotografi del tempo (con la tecnica del collodio ogni scatto richiedeva il montaggio di una camera oscura portatile); durò dieci settimane, durante le quali fu raggiunto Passo Taree, a 4658 metri di quota, e fruttò 147 negativi di zone nelle quali pochissimi occidentali avevano messo piede. L'anno dopo Bourne intraprese una spedizione ben più ambiziosa: accompagnato da una sessantina di coolies passò nove mesi nell'esplorazione del Kashmir, riportando 500 negativi. Nel 1868, Bourne realizzò la sua spedizione più ambiziosa, affrontando con ottanta portatori e un intero gregge di animali (il problema più drammatico era rappresentato dai rifornimenti) i passi più alti dell'Himalaya. Per molti anni, la sua fotografia di passo di Manirung, a 5670 metri, rappresentò la massima altitudine mai raggiunta da un'attrezzatura fotografica.
I sette anni passati da Bourne a preparare la "catalogazione fotografica" dell'Himalaya sono emblematici dei due atteggiamenti nei confronti del paesaggio che animarono l'intera fase iniziale della fotografia. Da un lato, il fotografo doveva certificare, attestare, esplorare, documentare. In una società che riteneva ancora fosse proprio diritto regolare il mondo, nel clima di un colonialismo ancora privo di dubbi, la fotografia assumeva il ruolo di strumento di conoscenza, e, all'occorrenza, di catalogazione: una sorta di "scheda segnaletica" del reale.
Tutto ciò non giustifica tuttavia operazioni ciclopiche come quelle di Bourne. Dietro c'era anche una sorta di anticipazione della "filosofia dell'estremo" che avrebbe percorso poi le attività umane, dalle esplorazioni dei Poli alla conquista alpinistica delle vette, quasi sempre in compagnia di un apparecchio fotografico. L'ansia era quella di essere dove nessuno era mai stato, e di far vedere ciò che nessuno aveva ancora visto. Quest'ansia, sul piano fotografico, non è spiegabile se non si tiene conto della contraddizione congenita all'interno della quale la fotografia è nata e cresciuta.
Straordinario strumento di riproduzione, capace di rendere una rappresentazione biunivoca di ciò che "posa" davanti all'obiettivo, il processo fotografico stupisce dapprima per questo suo rapporto intimo, indissolubile, apparentemente inossidabile con il reale. Nel momento in cui i primi dagherrotipi irrompono all'interno della società occidentale, tuttavia, la cultura vede realizzarsi nella maniera più evidente una scissione carica di conseguenze: da un lato i progressi delle scienze fisiche e della tecnologia producono una conoscenza sempre più approfondita e "produttiva" dei materiali, sino a fondare un sistema di approccio alla realtà e di pensiero che culminerà nel materialismo positivista; dall'altro la cultura "estetica" subisce ancora i contraccolpi dell'irruzione di una categoria romantica, quella del sublime, che richiede all'artista di mostrare ciò che non può essere visto, di parlare di ciò che le parole non possono esprimere, di esplorare i luoghi dello spirito nei quali non è possibile entrare.
Nelle arti figurative, il sublime si identifica spesso con il paesaggio: un paesaggio "al limite dello spirito", fatto di tempeste, di nubi, di mari in burrasca, di spiagge battute dalle onde; territori del visibile-invisibile nei quali la fotografia, legata a ciò che sta davanti all'obiettivo, non può per sua costituzione entrare. La fotografia mostra ciò che è, proprio nel momento in cui è in corso la dissoluzione turneriana di ciò che è visibile, in nome di ciò che è nella mente, o in qualche altro luogo in qualche modo magico. La fotografia ha bisogno di qualcosa che sta davanti all'obiettivo, riprende magnificamente gli oggetti, ma è impedita nel riprendere le idee, i turbamenti dell'anima, le scosse della coscienza.
Tutto ciò ha delle implicazioni che sono anche sociali. Il fotografo si trova automaticamente schierato dalla parte dell'ingegnere, del biologo, del botanico; ma ha gravi difficoltà a farsi ammettere nel mondo degli artisti. La stupida domanda: "Ma la fotografia è arte?" nasce non già dall'assenza di intenzioni o di capacità estetiche da parte del fotografo, ma dalla difficoltà costitutiva del processo.
Per uscire da questa contraddizione, il fotografo non ha che una strada: se non può riprendere ciò che non può essere visto, perché sulla lastra e poi sulla pellicola nulla risulterebbe, non gli resta che fotografare ciò che nessuno sinora ha visto. E così Samuel Bourne non è solamente alla ricerca della catalogazione fotografica dell'Himalaya; il suo tentativo, attraverso ciò che gli altri non possono vedere, è di entrare, superando i cinquemila metri di quota, in una fettina del sublime, pur in compagnia di un mezzo che apparentemente impedisce tutto ciò, e non solo perché ci vogliono schiere di indigeni per trasportare l'attrezzatura. Nella stessa maniera, sin dai primordi la fotografia ci fornisce abbondanti esempi di immagini pornografiche: un'altra scorciatoia, questa volta attraverso "ciò che non deve essere visto".
L'intreccio tra lo strumento di schedatura e l'arte che non può essere continua a lungo. Le riprese aeree, sino ai rilievi del satellite, sono un caso esemplare: da un lato consentono di trasmettere informazione (nella prima guerra mondiale gli aviatori decollavano quasi sempre in compagnia di un apparecchio fotografico), dall'altro mostrano ciò che altrimenti non può essere visto. Le lagune di Grado riprese dall'aereo riescono a trasformarsi in un'esperienza estetica.
L'altra via è quella della testimonianza: il fotografo di guerra mostra ciò che pochi hanno potuto vedere, e così la maturazione della fotografia, a metà del secolo scorso, è popolata di campi di cadaveri, a Gettysburg come in Crimea: sinché gli stati maggiori non si renderanno conto che a mostrare troppo, della guerra, si finisce per dar corda a quelli che la guerra non la vogliono fare: e così spariranno i cadaveri, e le trincee si animeranno di eroi che sfidano il pericolo, contribuendo a un'estetica che culminerà da un lato nei massacri della Prima guerra mondiale, dall'altro nell'iconografia virtuale, interamente costruita ad uso dei media, della Guerra del Golfo.
E tuttavia rimarrà intatto il problema di fondo, quello di far entrare il fotografo nel club degli artisti. Per ottenere questo mezzo, il fotografo dovrà imparare a negare il suo mezzo; la fotografia dovrà imparare a mentire. Questo processo avrà inizio verso la fine del secolo, tra le elites intellettuali anglosassoni, più sensibili alla discriminazione sociale: la fase storica chiamata pittorialismo, basata sullo sfumare del reale in ombre meno distinte, e nello stesso tempo nella costruzione quasi scenica dei soggetti, rappresenterà l'apice della contraddizione. Ma il "mentire fotografico" continuerà, anche se per vie più sofisticate. E così la reazione al pittorialismo, quella denominata "della fotografia diretta", troverà il suo apice in Ansel Adams, grande paesaggista statunitense. Eppure, per riprendere le cime battute dalla tempesta della Yosemite Valley, Adams dovrà inventare una tecnica assolutamente artificiale, che consente il controllo da parte del fotografo di ogni tonalità di grigio dell'immagine: non c'è nulla di meno realistico, di più costruito, del suo apparente iperrealismo.
In questo senso Ansel Adams si muove nella stessa direzione delle avanguardie europee degli anni Trenta, che scompongono l'immagine, demoliscono i canoni, utilizzano la fotografia all'interno di altri processi. Le due vie aprono la strada a quella "crisi del reale" che mette in dubbio la capacità primigenia della fotografia, quella di mostrare, di conoscere, e alla fine di essere creduta.
Le coscienze del secondo dopoguerra sono dominate dalla certezza di essere uscite da una realtà nella quale la fotografia è stata utilizzata per la costruzione dei grandi sistemi politici; da una gigantesca guerra nel corso della quale la fotografia è stata, assieme al cinema, un'arma strategica. La crisi del reale diventa allora messa in moto di meccanismi di rigetto, tentativo di smontare non quelle propagande, ma ogni possibile propaganda. L'avanguardia del reportage, da Robert Frank a Diane Arbus, si impegna a smontare i meccanismi del racconto, oppure a mostrare ciò che nessuno abitualmente ha voglia di vedere. E uno straordinario dilettante solitario, Mario Giacomelli, rilegge il paesaggio marchigiano, trasformandolo in grafismo, e poi in luogo dello spirito.
La crisi del reale apre la strada al meccanismo concettuale in fotografia prima che nelle altre arti figurative: sicché è quasi naturale che, quando l'artista concettuale si mette alla ricerca di un mezzo, trovi pressoché inevitabilmente la fotografia quale soluzione naturale. Nell'intreccio tra uso strumentale del mezzo e "pura fotografia" si crea un campo indistinto, un terrain vague, che gli artisti prediligono per la creazione al suo interno di un campo intensissimo di ambiguità, nel riaffiorare della contraddizione stavolta tra ciò che la fotografia mostra e ciò che la mente dell'artista ha progettato. Così la fotografia diventa strumento di documentazione della land art, ma nello stesso tempo è creazione di paesaggio immaginario per artisti come Jan Dibbets.
L'immagine di paesaggio subisce negli ultimi anni altri due tipi di interazioni. La prima è tipicamente italiana, ed è costituita dalla fotografia militante, strumento di intervento politico: l'analisi del degrado del paesaggio diventa uno degli strumenti di denuncia dell'inadeguatezza della struttura politico-amministrativa, e dà luogo, ad esempio, al diffondersi della cultura ambientale. La trasformazione subita dall'Italia nel dopoguerra, una delle più intense della sua storia, ha lasciato una scia di danni estetici e paesaggistici che il fotografo esplora dapprima come motivo di denuncia, ma poi come ricerca di per sè, come indicazione delle nuove strade di esperienza visiva che il reale ha reso possibile.
L'altra interazione ha radici più lontane, prevalentemente statunitensi, e cerca di inserirsi in una fase del pensiero architettonico che predica il ritorno alla cura dei piccoli segni, della minuzia della progettazione, al passaggio dalla grande progettazione di interventi colossali alla piccola progettazione dei dettagli minimi, chiave della qualità delle cose. In questo senso, la fotografia di quella corrente che è chiamata dei "new topographers" svolge la funzione di esplorare proprio realtà minime, che normalmente sfuggono alla catalogazione estetica e visiva; e il suo unico handicap è quello di aver realizzato nel giro di pochi anni un manierismo che ha richiamato molti esponenti giovani.
E infine esiste un'altra interpretazione del paesaggio, quella che cerca, attraverso la riproduzione di luoghi e paesaggi, di identificare dei "luoghi dello spirito", delle indagini su ciò che vi è di permanente, di primigenio, nella nostra cultura visiva. I quattro autori qui rappresentati lavorano, con modalità diverse, su questo tema comune, una sorta di confine tra il visibile e l'infinito. Elio Ciol ha percorso a lungo i paesaggi del Friuli, della Toscana e dell'Umbria, nell'ambito di un'attività fotografica lunga ed estremamente variegata. In particolare ha dato nobiltà visiva a una terra pressoché sconosciuta, la fascia pedemontana della Destra Tagliamento, creando un'immagine "nobile" di un paesaggio considerato tradizionalmente povero, e comunque tagliato fuori dai circuiti estetici tradizionali. La sua operazione può essere definita quella di una "scoperta di un territorio", non ai limiti estremi delle terre conosciute, ma all'interno di un'area in qualche modo dimenticata dalla conoscenza. Lungamente tenuto ai margini da una cultura fotografica superficiale, che privilegiava la documentazione sociale, può essere valutato oggi nella sua luce di maestro, per la sua capacità di applicare il sentire permanente dell'uomo ad aree trascurate, cosi come a zone note a tutti, come la "sua" Assisi.
George Tadge si impegna a ricercare più di ogni altro quanto vi è di permanente nell'imprint visivo con il quale apparentemente siamo nati e cresciuti. Portatore di un'esperienza fotografica particolarmente solida, basata sull'impiego del grande formato, esplora gli elementi semplici: gli alberi, le colline, i cieli. Con il passare del tempo, il suo stile diventa via via più essenziale, in questa sorta di "ritorno alle origini visive" nel quale è aiutato dal carattere della terra che gli è più familiare, la Toscana e l'Umbria. Un percorso simile a quello di Carmelo Nicosia, siciliano, il quale svolge la sua esplorazione estetica sui litorali, in una ostinata ricerca del confine fra terra, cielo e mare. La sua esperienza si è evoluta negli anni verso un linguaggio sempre più essenziale, nel quale la realtà si manifesta attraverso la luce e attraverso segnali sempre più piccoli. Le sue "Riflessioni a mare" sono nate in Sicilia, quasi a riflettere il carattere e l'ossessione del vivere da isolani, ma si sono poi trasferite su altre coste.
Piccolo Sillani intreccia meccanismi più complessi, specchio della sua collocazione intenzionalmente equivoca, di un rapporto mai risolto tra fotografo e artista concettuale che produce immagini fotografiche. Anche nel suo caso i protagonisti sono elementi essenziali, basilari, del paesaggio: l'orizzonte, l'albero, la luce, le materie. Il suo percorso tuttavia viene continuamente arricchito dalla presenza di sovrapposizioni concettuali, di inserimenti manuali, di progettazioni via via più complesse.
In questi percorsi viene via via evidenziato un ritorno alle origini, una ricerca attraverso elementi eterni e permanenti. La realtà visiva cerca così di essere uno specchio dell'anima: come nelle spedizioni di Samuel Bourne, la fotografia cerca per questa strada, ma ora senza l'angoscia di doversi negare, di entrare nei terreni inesplorati, di indagare ciò che non può essere visto attraverso ciò che viene mostrato.
Fabio Amodeo
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