mercoledì 28 dicembre 2011

IL CASTELLO ARAGONESE DI ISCHIA

Superbo maniero, regali fastigi di epiche gesta, tetro carcere, lugubri celle...(1) A Ischia ci si va per fare i bagni, quelli di mare, ma soprattutto quelli termali: sono note dall'antichità le sue acque termali riscaldate dalla continua attività dei focolai vulcanici sotterranei. Ischia è infatti un'isola vulcanica: sulle colline laviche, sugli orli di crateri in parte inabissati, sulle spiagge fumanti per la evaporazione delle acque, sulle punte rocciose, e su una vegetazione tipicamente mediterranea, domina il vulcano, l'Epomeo, 800 mt., sotto il quale, secondo il mito degli antichi colonizzatori, Zeus, il padre di tutti gli dei, avrebbe imprigionato il gigante Tifeo che con i suoi contorcimenti avrebbe provocato terremoti (2) ed eruzioni.
Su una punta rocciosa, arrivando a Ischia dopo aver superato Procida e l'isolotto di Vivara, il visitatore attento può scorgere, a sinistra, su un grande scoglio, confusi tra roccia e vegetazione, torri, merli e cupole. Il "superbo maniero" del titolo è proprietà privata dai primi del XX secolo, quando il Demanio lo mise in vendita, all'asta; anch'esso non è sfuggito alla destinazione turistica dell'isola, poiché all'interno è stato creato un hotel dove una volta era un convento di monache, bar per turisti, e all'ingresso ristorante e night-club ne rovinano la storia millenaria. La sua storia, infatti, sembra inizi nel V sec. a.C., nell'epoca in cui la penisola italiana e il Mediterraneo occidentale era dominato da Etruschi e da Cartaginesi, ed entrambi si contendevano le colonie greche della Campania e della Sicilia. Pithecusa, antico nome di Ischia, era inserita nel circuito delle colonie del Tirreno già dall'VIII sec a.C., e faceva capo alla più importante di esse, Cuma. Nel 474 a.C., in una battaglia navale nello specchio di mare compreso tra Cuma e l'isola, Gerone I, signore di Siracusa (3), chiamato in soccorso dai Cumani, inflisse una pesante sconfitta alla flotta etrusca e insediò un presidio sull'isola. In questa occasione, secondo gli storici, su un faraglione emergente dal mare per oltre 100 metri, da dove era, ed è ancora, visibile oltre a tutta l'isola, tutta la costa della terraferma da Gaeta a Sorrento, Gerone faceva costruire una fortezza. Probabilmente, l'originale murazione, di cui non resta nulla, in blocchi di tufo, doveva seguire l'andamento irregolare del luogo, mescolandosi e confondendosi con la roccia. Alla fortezza si accedeva per una scala esterna scavata nella pietra, ancora oggi visibile in parte, poichè lo scoglio era separato dall'isola maggiore. Nella cosiddetta casa del Sole, una antica costruzione posta all'interno del castello, sono oggi esposti oltre a opere di arte moderna, resti di secoli passati, e si ammirano pregevoli strutture architettoniche che si sovrappongono, risalenti a diverse epoche. Con la progressiva crescita di Neapolis e la decadenza di Cuma, Pithecusa e le altre isole vicine ne seguirono le vicissitudini e la storia. Tutte le dominazioni successive, Roma, Goti, Bisanzio Ducato di Napoli, Normanni, Svevi e Angioini apportarono alla fortezza di Ischia modifiche e trasformazioni secondo le diverse esigenze e diversi stili architettonici, allargandone il perimetro a tutta l'area disponibile, di circa 50.000 mq. avviandosi a diventare una vera e propria cittadella. Con gli Angioini (4), le mura furono ricostruite in stile romanico tipico dell'epoca, con alte torri merlate: una antica torre di avvistamento è ancora oggi visibile. Il castello assunse un carattere di cittadella fortificata, pronta ad accogliere la popolazione del borgo sottostante e anche dell'isola, per difendersi dalle incursioni dei pirati saraceni, all'interno sorgevano abitazioni, servizi e soprattutto chiese, ospitando fino a duemila persone. Venne costruito il Maschio, la torre più alta, per ospitare il re e la famiglia, e la sede vescovile. Risale all'epoca angioma, circa il 1300, quello che resta della cattedrale dell'Assunta nello stesso stile romanico, sopra la vecchia cappella normanna, che viene trasformata in cripta gentilizia. La cattedrale era di due piani: quella superiore presentava tre navate, di stile romanico con sovrapposizione di stile barocco le due laterali coperte con volte e a crociera, fu distrutta dai bombardamenti del 1809 degli inglesi. All'inizio della navata c'è il fonte battesimale con vasca del tardo rinascimento sostenuta da tre cariatidi. Nella cappella a destra del presbiterio c'è una antica tavola lignea raffigurante la Madonna della libera della seconda metà del sec. XIII, con le mani protese che arresta la lava per l'eruzione del 1301. È in questo periodo che lo scoglio e il Castello vennero collegati all'isola maggiore con un ponte di legno di circa 200 metri e fu creato un piccolo porto per l'attracco delle navi. Da quel ponte, ancora oggi, il borgo sottostante prese il nome di Ischia-Ponte. Del XIV sec. era l'abbazia dei monaci Basiliani, di cui si nota l'ingresso ad archi gotici.
Con Alfonso d'Aragona e i successori (5), dalla metà del XV sec., il Castello, sede dell'ultima resistenza angioina, iniziò il periodo del suo massimo splendore, tant'è che ancora oggi viene chiamato aragonese. Era un periodo di grandi mutamenti: nel campo militare il perfezionarsi e lo sviluppo di nuovi armamenti, le armi da fuoco di grosso calibro, avevano messo a dura prova gli architetti dell'epoca per la facilità con cui venivano abbattute mura che avevano resistito per secoli. I migliori ingegneri e architetti dell'epoca dovettero studiare e realizzare nuovi schemi architettonici per la difesa e l'offesa, con mura e bastioni capaci di resistere a un bombardamento. Perciò il vecchio castello angioino, caratterizzato da alte torri costruite per difendersi da assalti con scale e armi da lancio, non era più adatto e fu completamente trasformato. Torri cilindriche di grande diametro e murazioni massicce, dove era possibile porre cannoni e mortai e con merli più grandi per difendersi da proiettili e schegge. All'interno, vennero costruiti e rinnovati vari edifici, opifici, magazzini per rifornimenti, forni per il pane, cisterne e l'arsenale. Ma soprattutto vennero costruiti e rinnovati edifici religiosi, come la chiesa di S. Maria delle grazie a strapiombo sul mare, ampliata su precedenti cappelle verso il 1500, destinata alla congrega dei pescatori dell'isola. Fu rinnovata la cattedrale dell'Assunta con la sottostante cripta gentilizia, nella quale si ritrovano una serie di affreschi di pregio di scuola giottesca del XIV sec. Essi si riferiscono alla storia di una santa, secondo alcuni S. Caterina. Alle pareti sono rappresentati figure di santi e stemmi delle famiglie gentilizie sepolte. La cattedrale offre ancora, malgrado gli scempi operati dal tempo e dagli uomini, alcuni spunti di interesse artistico: due cappelle laterali conservano ancora una decorazione parietale in stucco modellato e dipinto di bianco, che posso illustrarci gli stili ornamentali diffusi in area napoletana nella prima metà del 1600. Il ponte di collegamento, in legno, venne sostituito con uno in muratura. La padrona di casa fu per lungo periodo Vittoria Colonna (6), dal 1501 al 1536, moglie del governatore del castello e poetessa, che riunì intorno a se un circolo culturale frequentato da poeti e letterati, come Iacopo Sannazzaro e Bernardo Tasso, Ludovico Ariosto e artisti come Michelangelo Buonarroti. A Michelangelo si attribuiscono alcune pitture esistenti nel castello, in una torre detta appunto di Michelangelo, eseguite nel periodo in cui l'artista vi soggiornò. Nel periodo del vice–regno spagnolo (7), con il vicerè don Pedro de Toledo, insediatosi nel 1533, vi furono grosse ristrutturazioni, sia dal punto di vista urbanistico della città di Napoli, sia dal punto di vista difensivo, che coinvolsero anche le piazzeforti del golfo, come appunto il castello di Ischia, come oggi lo vediamo. Un tempietto a pianta esagonale, attribuito all'architetto Iacopo Barozzi, detto il Vignola (8), fu denominato S. Pietro a Pantaniello perché la statua del santo proveniva da una antica chiesa abbandonata situata su una collina vicino all'attuale porto di Ischia, che all'epoca era un laghetto detto appunto il pantaniello. Nel 1575, venne fondato il Convento delle monache clarisse, di cui oggi è visitabile il giardino e il cimitero. Nel cimitero delle monache sono visibili gli scolatoi, cioè seggioloni in muratura sui quali, si dice, venivano deposti seduti i corpi morti delle monache; si racconta di una macabra pratica di lenta decomposizione della carne, e della raccolta degli umori in appositi vasi, mentre solo dopo gli scheletri venivano ammucchiati nell'ossario. Il convento fu chiuso nel 1810, durante la dominazione francese, da Gioacchino Murat. Rilevante la chiesa dell'Immacolata, costruita su una precedente cappella del XV sec, presenta una pianta a croce greca, in stile barocco è la mole della cupola, tanto imponente da essere notata da tutta la città di Ischia; la facciata esterna e le pareti interne sono oggi semplicemente intonacate, mentre una cupola posta su un tamburo circolare forato da otto finestroni chiude tutto l'ambiente. Si notano, all'interno, decorazioni composte da cornici e stucchi barocchi. Con l'avvento dei Borbone, il castello, passato al Demanio del regno e svuotato degli ultimi abitanti, fu trasformato in carcere per detenuti comuni e, successivamente, nel 1850, politici: ancora oggi il tragitto turistico passa per il carcere borbonico dove sono ancora visibili spioncini e cancelli. Con l'Unità d'Italia, il Castello fu utilizzato come casa penale fino alla vendita. Oggi molti ambienti sono sottoposti a restauri e vengono utilizzati per attività culturali. Giovanni Attinà (Leggi su Arte Ricerca)

Marcello Mascherini (Udine 1906 - Trieste 1983)

Marcello Mascherini, La Strage degli Innocenti, 1942, bronzo h. 35 cm.
Nato ad Udine, all'età di quattro anni si trasferisce con la sua famiglia a Trieste. Trascorso il periodo della prima guerra mondiale ad Isernia, nel 1919 ritorna a Trieste e si iscrive all 'Istituto Industriale - Sezione artistica dove segue i corsi dello scultore Alfonso Canciani. Il suo debutto artistico avviene nel 1925 alla collettiva del Circolo Artistico Triestino, ma è nel 1931 che si fa conoscere a livello nazionale partecipando alla I Quadriennale di Roma: qui entra anche in contatto con la scultura di Arturo Martini, un incontro importante per la futura produzione di Mascherini. Sarà presente anche alle successive Quadriennali romane del 1935, 1939 e 1943; alle Triennali di Milano del 1933 e 1936; alle Biennali di Venezia nel 1934, 1936 e nel 1938 con una personale. Nel 1949 è nominato socio insigne dell'Accademia di S. Luca; nel 1950 ottiene in primo premio (ex aequo) per la scultura alla XXV Biennale di Venezia. Nel 1954 riceve il secondo premio internazionale per la scultura alla prima Biennale di San Paolo del Brasile. Nel 1959 è tra i primi cinque al concorso internazionale per il monumento di Auschwitz e ottiene invece il secondo premio nazionale per il monumento della Resistenza a Udine. Alla Biennale veneziana del 1962 vince il primo premio internazionale di arte sacra per la scultura. Da ricordare inoltre la sua attività teatrale in qualità di regista e soprattutto scenografo, iniziata negli anni Cinquanta a Parigi e ripresa poi al Teatro Stabile di Trieste e al Teatro dell'Opera di Roma. Infine le sue ultime importanti esposizioni in Giappone, a Salisburgo e a Vienna; la mostra di Basilea "Art 11'80" e l ' antologica di Treviso nel 1980. Franca Marri (Leggilo su Arte Ricerca)

Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato 1859 - Torino 1933)

Leonardo Bistolfi, scultore, pittore, illustratore e medaglista, nacque a Casale Monferrato il 15 marzo 1859. Figlio dell'intagliatore e scultore Giovanni Bistolfi e di Angela Amisano, con una borsa di studio ottenuta dal comune, nel 1876 si iscrisse all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, dove fu allievo di Giosuè Argenti. Nel 1880 frequentò i corsi di Odoardo Tabacchi all'Accademia Albertina di Torino. Portabandiera del simbolismo sorto come reazione al verismo, realizzò una vastissima produzione si sculture in cui aleggia il gusto floreale (La sfinge, La bellezza della morte, L'olocausto, L'angelo del dolore). Decorò monumenti funerari dei cimiteri di Torino, Milano, Pisa, Zurigo, Venezia, Buenos Aires, dei quali il più celebre è la Tomba Braida del cimitero di Torino, in cui un angelo protende le ali su una culla vuota, che prese il titolo L'Angelo della morte. Realizzò numerosi ritratti di personaggi illustri (Vittorio Emanuele II, Umberto I, Lorenzo Delleani, Edmondo De Amicis, Cesare Lombroso, Vittorio Bersezio, Emilio Treves), eseguì busti in marmo e bronzo, progettò medaglie e monumenti. Agli inizi degli anni novanta divenne segretario del Circolo degli Artisti, nello stesso anno venne nominato membro onorario dell'Accademia Albertina. Fondò nel 1902, con Calandra, Reycend, Ceraioli e Thovez, la rivista "L'arte decorativa moderna". Partecipo' alla prima edizione della Biennale di Venezia e a successive edizioni tra il 1895 e il 1905. Nel 1905 ricevette un premio per la scultura. Nel 1906 realizzò un monumento per il pittore Giovanni Segantini; nel 1908 concluse a Sanremo il monumento dedicato a Giuseppe Garibaldi. Nel 1923 venne nominato Senatore. Nella tardo periodo, il simbolismo degli inizi venne soppiantato da pesanti forme di gusto neorinascimentale. Morì a Torino, il 3 settembre del 1933. Alla Gipsoteca Leonardo Bistolfi di Casale Monferrato sono esposti disegni, terracotte, bozzetti, modelli in gesso, marmi e bronzi. A.R. (Leggi su Arte Ricerca)

GIOVANNI BOLDINI (Ferrara 1842 – Parigi 1931)

Giovanni Boldini, seguendo le orme paterne, dedicherà i primi anni della sua formazione artistica alla copia dei capolavori rinascimentali. Nel 1858 inizia, con un autoritratto, quella serie fortunata di dipinti di signore e di personaggi, che non abbandonerà mai e che lo renderanno ricco e famoso nel mondo. Nel 1860, appena diciottenne, gode già di una certa fama a Ferrara e dintorni, quale ritrattista. Nel 1862, grazie ad una piccola eredità di uno zio sacerdote e su consiglio del padre Antonio, Giovanni si trasferisce a Firenze per iscriversi all'Accademia di Belle Arti, dove tengono cattedra Stefano Ussi ed Enrico Pollastrini, ma che, carattere ribelle, non frequenterà a lungo, non condividendone, sembra, i rigidi metodi accademici. Durante il soggiorno in questa città, diverrà amico inseparabile di Michele Gordigiani e Cristiano Banti, i quali lo introduranno nel gruppo dei Macchiaioli (artisti che si ritrovano al Caffè Michelangelo, tra i quali: Fattori, Martelli, Signorini, Cabianca, Borrani, tutti esponenti di rilievo del movimento). Boldini, ospite nello studio di Michele Gordigiani, in via Nazionale, realizza il ritratto di Giuseppe Abbati, suscitando ammirazione, invidia ed un autentico andirivieni di artisti curiosi. Nel 1865 Giovanni Boldini è ospite di Diego Martelli a Castiglioncello; l'anno seguente si reca a Napoli con il suo amico Cristiano Banti, dove viene affascinato dall'ambiente partenopeo e dall'originalità di alcuni naturalisti locali. Durante questo periodo egli dipinge alcuni ritratti di Cristiano e della sua famiglia (1866) ottenendo il plauso, ma anche qualche critica nella cerchia dei macchiaioli. Nel 1867 Giovanni Boldini si reca, assieme ai Falconer per la prima volta a Parigi, per l'Exposition Universelle ed incontra Degas (che del resto era abbastanza di casa a Firenze), Manet, Sisley e Caillebotte. L'anno seguente il suo ritorno in Toscana, Giovanni inizia ad affrescare la sala da pranzo della "Falconiera", nella campagna di Pistoia, lavoro interrotto molte volte e completato solamente nel 1870, anno in cui si reca a Londra, ospite di William Cornwallis West, e dove esegue con successo vari ritratti di signore inglesi; però la capitale inglese non lo soddisfa appieno ed al finire dello stesso anno rientra in Italia. Si trasferirà nel 1871 a Parigi, dove collaborerà con il potente mercante d'arte Goupil, per il quale lavorano già Giuseppe Palizzi, De Nittis, Mariano Fortuny ed Ernest Messonier. In questo primo periodo, nell'allora capitale mondiale delle arti, Boldini muta il suo linguaggio macchiaiolo degli inizi, per realizzare quadri di piccolo formato dipinti con sapiente virtuosismo. Sulla scia di un filone, condizionato dalle esigenze dei ricchi collezionisti francesi ed inglesi e già ampiamente percorso dai suoi colleghi, questi dipinti "di genere", con temi settecenteschi o di vita contemporanea, furono il preludio alle grandi vedute parigine e veneziane e dei monumentali ritratti realizzati nella maturità. Da questo momento Boldini diverrà il massimo rappresentante del ritratto d'epoca, mondano o di rappresentanza, superando per successo molti altri pittori quali Stevens, Sargent, Lenbach, Lazlò, Fortuny, Lavery, Zuloaga, Blanche, Besnard, Orpen, dediti tutti ad immortalare la bella società. ... nel 1889 Giovanni Boldini viene nominato commissario per la sezione artistica italiana all' Exposition Universelle di Parigi, allestisce le quattro sale valendosi della collaborazione dei pittori Signorini e d'Ancona, e dello scultore Rivalta: nella prima sala erano esposti tre grandi ritratti di Boldini, fra i quali il Pastello bianco. (E. Camesasca, 1970) In questa occasione Boldini presentò complessivamente otto opere, fra le quali: Coralli di ricambio; Chiesa di San Alarm e Due autori (acquerello), quest' ultimo premiato con il diploma d'onore. A settembre parte con Degas per la Spagna, soggiornandovi dal 7 al 17; dopo aver visitato Madrid, vanno in Marocco a Tangeri; rientrano a Parigi il 26 dello stesso mese. ..."in Giovanni Boldini il fermento non appare agire se non dopo il viaggio in Spagna con Degas, nel 1889. Il decennio formativo è d'incubazione, pur se contiene cose preziose e luminose e talvolta già di straordinaria incisività e sintesi come i ritratti del padre e del generale spagnolo; ma sebbene vi sia maggiore continuità tra queste opere e quelle che si scaglionano (avvertendo che occorre cautela per la cronologia, causa anche le frequenti riprese a distanza) nel primo periodo parigino, c'è pure ad un certo momento una situazione che esige d'esser considerata se non come un salto come un rinnovamento". (C. Ragghianti 1970) Nel 1881 lo Stato francese aveva abbandonato il suo diritto di controllo sui Salons, cedendolo alla Société des artistes français; nel 1884 nacque il Salon des Indépendants, che senza giuria e senza premi offriva a chiunque la possibilità di esporre. Nel 1890, Meissonnier provocò una secessione, fondando, con Puvis de Chavannes, la Societè Nationale des Beaux-Arts, alla quale si associano Boldini, Sisley, Blanche, Rodin. Nel 1891 Boldini si reca a Firenze, dove realizza, per incarico della Direzione degli Uffizi, un autoritratto, ottenendo in cambio un calco del Cardinale de' Medici del Bernini. Durante questo soggiorno, ospite dei Banti, sembra abbia avuto una breve relazione sentimentale con Adelaide, figlia dell'amico Cristiano e già ritratta da Giovanni in giovane età.
Nel 1893, in occasione del gala milanese del Falstaff di Verdi, fa dono al musicista di un ritratto ad olio dello stesso. Nel 1895 è nel comitato di patrocinio della Biennale di Venezia. Nel 1897 presenta il ritratto a pastello di Verdi, assieme ad altre opere, alla Biennale di Venezia; nello stesso anno espone anche a New York. Nel 1900, a Palermo, ritrae Franca Florio; partecipa all' Exposition Universelle di Parigi con i ritratti di Whistler (che aveva già presentato a New York tre anni prima) e dell' infanta Eulalia di Spagna (Museo Boldini di Ferrara). Agli inizi della prima guerra mondiale Boldini si trasferisce prima a Londra e poi sulla Costa Azzurra, a Nizza. Nel 1918, quando la guerra volge al termine, rientra a Parigi, dove l'anno seguente il governo francese lo insignisce della Legion d' Honneur. In un articolo pubblicato il 4 ottobre del 1925, Filippo De Pisis, anche lui ferrarese, racconta una visita a Boldini compiuta alcuni giorni prima, a Parigi. - Il maestro, che da un pezzo aveva superato gli ottanta, abitava al 41 di Boulevard Berthier tra binari, stazioni, mercati, in una villa modesta. Pur soffrendo da anni agli occhi, con vista notevolmente indebolita, continuava a viaggiare, dipingere, esporre, avere rapporti con clienti e collezionisti. - Quando De Pisis gli fece visita, sul cavalletto dello studio, una grande tela, forse appena ritirata dal Salon (non identificata tra le opere allora esposte) spiccava in tutta la sua bellezza. Giovanni Boldini conclude la sua gloriosa carriera artistica a Parigi, l' 11 gennaio 1931, all'età di 89 anni. Per volontà testamentaria, la salma venne trasferita a Ferrara accanto a quella dei genitori. Il 7 maggio dello stesso anno, venne allestita una rassegna di varie fra le sue opere principali, presso la Galleria Charpentier di Parigi, prima delle numerose 'postume' di cui Emilia Cardona si fece instancabile realizzatrice. Giorgio Catania (Leggi tutto su Arte Ricerca)

ROBERTO KUSTERLE - I RITI DEL CORPO

Le immagini di Roberto Kusterle fluiscono dallo spazio/tempo espositivo attraverso i nostri sensi, contaminando con piccole spore di inquietudine la percezione del reale e i nostri quotidiani equilibri. Le sue fotografie testimoniano di un processo creativo che, lontano da compiacimenti estetici, propone una rilettura del corpo attingendo alle dinamiche liberatorie di happenings e performances che avevano caratterizzato l'arte degli anni '60 e '70 (si pensi al movimento del Wiener Aktionismus di Hermann Nitsch e Arnulf Rainer, alle trasformazioni di Francisco Coppello o di Urs Lhuti), per approdare a una personalissima fotografia teatralizzata, i cui protagonisti, esseri metamorfici depositari di enigmatiche vestigia di religioni antiche, incarnano -alternando l'ironia all'angoscia- le pulsioni di Eros e Thanatos. I personaggi, a metà strada tra visioni oniriche e proiezioni di un inconscio collettivo, sembrano prender corpo dalle pagine di “The golden bough” di J. G. Frazer, compendio di studi antropologici e riti propiziatori; con loro ci addentriamo in una dimensione nella quale gli animali diventano pegno e ricettacolo del dio a cui vengono immolati, trasformandosi in fonte di potere e talismano di protezione. Il corpo non è che un guscio: l’anima, deviata da un canale, confluisce vivificata in un altro; durante il sonno, naturale o indotto che sia, essa si allontana per visitare luoghi e compiere azioni che il dormiente vede nei suoi sogni. Le figure dei ritratti di Kusterle immerse appaiono in una trance iniziatica: gli occhi chiusi, le membra abbandonate, lo spirito dolorosamente proteso alla ricerca di risposte agli eterni dilemmi della vita. Ma l’impianto classico è destabilizzato da un’inventiva dissacrante e visionaria; gli elementi naturali, tolti dal loro abituale contesto e riadattati a suggerire nuove simbologie, concorrono a stemperare il pathos per approdare a una insolita dimensione ludica.
Lo scatto fotografico non si pone come punto di arrivo, ma come fase intermedia del lento affiorare di rituali ancestrali, nei quali il confine dell'uomo non coincide con quello del proprio corpo. E se la narrazione fotografica ci rimanda a sacrali cerimonie, rituali devono essere anche le fasi di preparazione: da quando Kusterle fissa le idee su carta, alle mattutine passeggiate lungo l'Isonzo, osservando la natura non con gli occhi del gitante, ma con lo sguardo dello sciamano capace di infondere l'élan vital alle spoglie di piccoli animali, a rami e radici, raccolti e poi gelosamente custoditi nel proprio atelier. Rituale è la spoliazione e de-strutturazione dei personaggi, rivestiti di creta, trasformati attraverso innesti e “mutilazioni” in creature antropomorfe di lontane mitologie. E solenne deve essere il processo di stampa: meticolosi la scelta della carta e i molteplici passaggi in camera oscura, per ottenere il giusto contrasto tra l'urlo sommerso dei soggetti e la morbidezza dei toni dello sfondo, per raccontare di crepuscoli dentro a tende o capanne, quando gli anziani della tribù narravano di magiche imprese e di riti pagani consumati intorno al fuoco. A noi osservatori non resta che inoltrarci in queste inesplorate terre d’ombra: tra teofanie arboree e marine, magari scopriremo che la forza del nostro sguardo, percorrendo ogni immagine, potrebbe incrinare la falsa inerzia dello scatto fotografico e, sgretolando barriere di sabbia e concrezioni di argilla, riscaldare la materia sottostante, richiamando a nuova vita (e nuove sofferenze) quelle anomale divinità. Lorella Klun (Leggi su Arte Ricerca)

OPERA APERTA - di lorella klun

Nel secondo dopoguerra, l’affastellamento dei tanti linguaggi visivi e formali, unito alle nuove esigenze di mercato e all’evoluzione dei processi produttivi che stavano velocizzando il ricambio di gusti, mode e tendenze, provocò un progressivo mutamento dei meccanismi di invecchiamento ed obsolescenza dell’opera d’arte; uno degli effetti dell’accelerata fruizione dei fenomeni artistici fu senza dubbio una perdita di significato da parte della cultura figurativa contemporanea. Le strutture artistiche non presentarono più universi chiusi, dimostrando, come sottolinea Umberto Eco nel suo “Opera aperta” del 1962, una chiara tendenza all’ambiguità: al fruitore si incominciò a chiedere un particolare impegno di ricostruzione dei materiali proposti, che conduceva a delle scelte operative ed interpretative di volta in volta diverse. In questo scenario in divenire si innestarono le ricerche di numerosi artisti che si prefiggevano di abbattere la rigidità delle categorie dell’arte, a favore di una interpenetrazione settoriale e di una marcata flessibilità creativa e comunicativa. La fotografia contribuì a trasformare e promuovere l’azione in opera d’arte, come nel caso delle riprese del 1952 di Hans Namuth nell’atelier di Jackson Pollock; nelle immagini dell’artista al lavoro egli sfruttò il particolare effetto di sfuocatura incidentalmente ottenuto, per trasformarlo in uno stile di rappresentazione, accentuando così l’energia, la teatralità e la sofferenza del gesto creativo di Pollock. Ricalcando in questo modo i “codici” del dripping, secondo i quali il pittore, valutando l’effetto delle gocciolature di colore, decide di lasciarle “omologando come voluta una realtà accidentale”1 e quindi coniugando il caso con la propria intenzione formativa originale. Gli Stati Uniti, che negli anni cupi del nazionalsocialismo e del conflitto avevano accolto molti artisti europei in fuga, ora raccoglievano gli esiti del fervore creativo sviluppatosi dal serrato dialogo di tante e diverse culture, strappando a Parigi il primato di capitale dell’arte. Dall’America l’arte informale si estese e si diffuse in Europa, ricongiungendosi con gli eredi delle Avanguardie; il parigino Georges Mathieu comprese la potenza e l’audacia dell’Espressionismo Astratto americano, ma soprattutto capì l’importanza della messa in scena della pittura, e delle possibilità di interazione con il pubblico, ponendosi come precursore dell’arte-azione. Nel 1954 traspose sulla tela la Bataille de Bouvines avvenuta nel XIII secolo, indossando un costume che richiamava l’abbigliamento militare medioevale; nel 1957, in occasione del suo soggiorno a Tokio, abbigliato con un kimono, realizzò un dipinto di 15 metri, composto da due tele stese sul pavimento, rievocando in poco meno di due ore il furore e l’impeto della La Bataille de Hakata (celebre battaglia del 1281, quando i giapponesi sconfissero Kublai Kan), spremendo direttamente i tubetti di colore, colpendo la superficie con un asciugamano imbevuto di colore, brandendo spazzole e pennelli come armi. L’informale mostrò agli artisti nipponici un possibile innovativo percorso, in grado di sublimare le angosce della sconfitta bellica e gli incubi del disastro nucleare; in più si potevano trovare affinità e assonanze -nella velocità di esecuzione, l’improvvisazione e la gestualità esecutiva- con la loro ricca tradizione calligrafica e pittorica. Il gruppo “Gutai bijutsu kyokai” (Associazione Arte Concreta), nato ad Osaka nel 1954, prendendo coscienza del sovvertimento dei valori e dei modelli artistici, si prefissò lo scopo di produrre un’arte mai esistita prima, esprimendo, attraverso la materia, tutto ciò che avviene nell’animo umano: “Con la nostra attuale consapevolezza, le arti che abbiamo conosciuto finora, generalmente ci appaiono come falsificazioni dotate di un’enorme affettazione. Prendiamo congedo da queste pile di oggetti contraffatti sugli altari, nei palazzi, nei saloni e nei negozi di antiquariato. Questi oggetti sono un travestimento e i loro materiali, vernici, stoffa, metalli argilla e marmo, sono caricati di falsi significati. [...] Sotto il paravento di un fine intellettuale, quei materiali sono stati uccisi e non possono più parlare di noi.”2 “Fluxus”, movimento sviluppatosi tra il 1958 e il 1962 in America, Europa e Giappone, mise in discussione i tradizionali canoni operativi, negando la distinzione tra arte e non-arte: avvalendosi di tutti i mezzi espressivi, con particolare attenzione ai nuovi media (erano gli anni della diffusione della televisione, dell’elettronica, dei primi computer e delle teorizzazioni sull’intelligenza artificiale), presentò una serie di azioni-suggestioni che attingevano e transitavano tra le ricerche New-Dada (riprendendo il ready-made di Duchamp) e l’osservazione della micro-quotidianità. Alimentando anche la “vecchia” fascinazione per l’arte giapponese, riprese gli stilemi dell’Haiku -composizione poetica giapponese in tre versi di 5-7-5 sillabe che, giocando sulla molteplice interpretazione di alcuni ideogrammi, fissa il rapporto tra emozioni umane e mondo della natura- e si lasciò permeare dalla cultura Zen. In Fluxus la musica sperimentale ricoprì un ruolo importante: John Cage, figura chiave del movimento, fu sicuramente ispirato dal Teatro sintetico futurista e dal concerto del 1929 di Marinetti per la radio italiana, in cui uno dei pezzi proposti era un “silenzio” di quattro minuti; per Cage la musica doveva avvicinarsi alla vita che, se ascoltata attentamente, sarebbe in grado di fornire infiniti elementi musicali, non più legati da una matrice melodica, ma indeterminati e mutabili. Nel 1952 al Black Mountain College, su una sonata al pianoforte, sovrappose al suo declamare appollaiato su di una scala a pioli, diverse azioni: mentre attori in mezzo al pubblico si alzavano a turno recitando poche battute, venivano proiettate delle immagini cinematografiche sul soffitto; contemporaneamente Robert Rauschenberg faceva suonare vecchi dischi su un grammofono e Merce Cunningham improvvisava dei passi di danza. Il voler rifuggire dal concetto di ispirazione e riproporre in termini nuovi il rapporto con la creatività fu un tema caro agli esponenti del movimento; Nam June Paik in un suo famoso pezzo distrusse un violino e Philip Corner dedicò un concerto/evento allo smontaggio di un pianoforte, entrambi anticipando le performances di alcuni gruppi rock, The Who in testa, che sul palco, in un crescendo catartico di energia e ribellione, erano soliti distruggere i propri strumenti. Nel 1960 in Francia il critico Pierre Restany organizzò il gruppo Nouveau Réalisme che riapplicando in versione tridimensionale le ricerche sulla simultaneità dei piani prospettici e agendo sulla commistione e nobilitazione di materiali “poveri”, spago, cartone, biglietti -già territorio di ricerca dei cubisti-, si appropriava dei segni urbani, dei materiali di recupero e dei materiali pubblicitari; li contaminò elaborandoli e ricomponendoli, trasponendoli in una diversa realtà e arricchendoli di nuovi valori. Yves Klein, fu animatore e provocatore di eventi e scandali artistici, come l’allestimento nel 1958 di una mostra intitolata Le Vide (Il vuoto), per l’appunto completamente spoglia; instancabile sperimentatore, vicino alla filosofia zen ed esperto di judo, utilizzò disparati metodi ed elementi per realizzare le sue opere: si avvalse di un lanciafiamme o dell’effetto degli elementi atmosferici su una tela legata al tetto di un’automobile in viaggio tra Parigi e Nizza: “Posai una tela di fresco spalmata con il colore, sul tetto della mia bianca Citroen. E mentre io divoravo la nazionale 7 a cento all’ora, il caldo, il freddo, il sole, il vento e la pioggia fecero sì che la mia tela si ritrovò prematuramente vecchia. Trenta o quaranta anni almeno si trovavano concentrati in una sola giornata...”3 Possiamo annoverare le sue sedute pittoriche, trasformate in cerimonie pubbliche, tra i primi happenings: nella serie delle “Antropometrie” i modelli immersi nel colore o spolverati di pigmenti erano fatti scivolare e rotolare su grandi tele, distese per terra o applicate alle pareti. Il concetto di opera d’arte, posta non più come entità conchiusa, ma work in progress, destinato a mutare, deperire e cancellarsi con la conclusione dell’evento, sovvertì in modo radicale ed irreversibile le regole del mercato; dagli anni ’60 l’Arte Povera, quella Concettuale e la Body Art occuparono la scena mondiale, portando in primo piano la criticità e l’energia delle forze produttive dell’inconscio. Lorella Klun (Leggi su Arte Ricerca)

COME VIAGGIAVAMO NELLA MITTELEUROPA 1815-1915

Viaggiare! Uscire dal "quotidiano", cambiare, cambiare tutto, per assicurarci i benefici desiderati! L' abbiamo imparato di recente con l'etica della vacanza estiva", esortavano le guide di fine secolo XIX. Ma perché le vacanze divenissero un'opportunità accessibile quasi a tutti nel mondo occidentale dovette trascorrere circa mezzo secolo. Se il Settecento era stato caratterizzato dal moltiplicarsi dei viaggi, esplicazione di una nuova psicologia basata sul movimento, sull'«irrequietezza» di una nuova volontà di scoprire e di confrontare, che comportava necessariamente una presa di posizione critica, una riflessione che poneva in discussione i concetti di autorità tradizionalmente indiscussi, una rappresentazione del travaglio della società nobiliare nel trapasso da una struttura di caste chiuse ad una fondata su più liberi rapporti umani, il viaggiare rimaneva tuttavia privilegio di pochi, prerogativa di uomini di elevata condizione, nobili, ricchi e colti. Dotati di competenze e motivazioni diverse, i viaggiatori del Settecento erano accomunati dall'interesse per l'ambiente umano e civile, storico e antropologico. Uscendo dal quotidiano si scontravano con un "fuori" in cui dominava l'incertezza, ma "liberi" da imposizioni temporali legate all'attività produttiva. Il viaggio in carrozza era una conquista, un'esperienza vissuta fino in fondo, un arricchimento della propria personalità. "Non sono una vera viaggiatrice. Ho paura quando la strada è brutta e quando il postiglione è troppo avventato; ho grande ribrezzo per la sporcizia; non riesco a buttar giù certi cibi come ad esempio il caffè di cicoria di Merano; perdo la pazienza, mi deprimo e mi rammarico di non essere rimasta a casa quando si verifica una giornata di pioggia proprio nel momento in cui io volevo vedere qualcosa di interessante. Tuttavia preferisco sopportare tutto ciò piuttosto che rinunciare alla passione del viaggio" scriveva la berlinese Ida Hahn-Hahn nelle Reisebriefe sulla sua esperienza in Italia. Passione per il viaggio piena di contraddittorietà, compensata tuttavia dal significato stesso del viaggiare come fuga dalle costrizioni che il ruolo femminile imponeva alle donne e come liberazione, ossia vivere una vita alternativa in cui poter essere finalmente se stessa. La pubblicazione della guida per i viaggiatori in Europa di Mariana Starke, Information and direction for travellers on the Continent del 1825, riveduta e ampliata nel 1828, conferì alla turista femminile un certo "status": le donne non causavano più reazioni di sorpresa: affrontavano il viaggio in Italia per motivi convenzionali, sole o accompagnate in lussuose carrozze private, o con mezzi di trasporto più modesti, sobbarcandosi le fatiche del viaggio per l'intera giornata su strade dissestate, in compagnia a volte di sconosciuti che ad ogni balzo piombavano loro addosso, o con la paura di venir assalite da briganti. Una vera tortura, compensata dalle bellezze storico-artistiche, che richiedeva tuttavia "una buona costituzione fisica e una cristiana pazienza". La lentezza delle carrozze postali sfiniva i passeggeri. "Ci si muove con lentezza incredibile, ci si ferma per ore ad una stazione di posta, in ventiquattro ore si riesce a malapena coprire otto miglia" si lamenta un viaggiatore. È interessante come le guide postali di allora raccomandino di portare con sé un pugnale, di provvedere ad attaccare al bagaglio dei campanelli, "in modo che quando cessano di suonare, si sa che è accaduto qualcosa", di preferire bagagli di pelle di vitello o di cinghiale piuttosto che di foca a causa della polvere delle strade; di apporre allo scrignetto una robusta serratura e dal momento che funge anche da necessaire da viaggio contenere anche materiale per scrivere, ovviando in tal modo alla carenza diffusa nelle locande italiane, dove l'oste scrive il conto intingendo il pennino nell'inchiostro versato in un piatto. "Le carrozze non erano sempre in buono stato e non pochi erano gli incidenti, causati dal pessimo stato delle strade ulteriormente aggravato dalla pioggia, dalla neve e dal fango. Bisognava scendere e sprofondare nel fango, quando la carrozza non si ribaltava." Santo Iddio che buio, che groviglio di braccia, di gambe di volti! Un po' alla volta cercammo di ricomporci e di uscire per il finestrino uno dopo l'altro come spazzacamini dalla canna fumaria!" annotava Glaser, quando invece la carrozza non veniva sollevata da forti raffiche di vento e sbattuta in un campo di patate a 10 piedi di distanza. I postiglioni a volte erano impertinenti e le stazioni di posta distanti due ore di tragitto l'una dall'altra. "È necessario il cambio dei cavalli; ci stiamo avvicinando ad una stazione di posta. Finalmente nella notte buia una luce fioca: la porta della stalla si apre sonnecchiosa, un postiglione esce sbuffando. Con lentezza incredibile i cavalli vengono attaccati, con goffaggine provate le briglie. Poi il postiglione indossa lentamente la sua uniforme, getta sulla carrozza la frusta, il mantello, un grande sacco di avena e foraggio, la sella e finalmente si arrampica sulla cassetta", scriveva Friedrich Wilhelm Hackländer nel Reise in den Orient del 1846.....continua (Leggi tutto su Arte Ricerca) Marina Bressan © Edizioni della Laguna

AVANGUARDIE: "IL COSTRUTTIVISMO"

Alla fine del primo conflitto mondiale la situazione sociale e tecnologica dell'Europa era profondamente mutata; lo sviluppo dell'industria e della meccanizzazione da un lato, il crescente aumento demografico dall'altro richiedevano nuovi parametri di abitabilità e di funzionalità cittadina. La tecnologia industriale andava sostituendo la tecnica artigianale delle costruzioni e l'architettura, oltre a raggiungere risultati esteticamente validi, doveva risolvere i molti рrоblemi funzionali legati all'apparato urbano. La Russia, durante questo periodo, contribuì al rinnovamento del panorama artistico europeo con tre movimenti d'avanguardia - il Raggismo, il Suprematismo e il Costruttivismo. Se fino al 1905 l'arte e la letteratura russa erano rimaste fedeli al realismo dell'Ottocento, da questa data in poi conosceranno delle rivoluzioni profonde, che vedranno l'astrattismo affermarsi attraverso queste tre correnti fondamentali. Questi movimenti, ispirati dalle correnti d'avanguardia del fauvismo e cubismo francese e dal futurismo italiano (in Russia i primi artisti di avanguardia scelsero di chiamarsi cubo-futuristi), rifiutavano ogni forma di rappresentazione mimetica dell'esperienza sensibile, cercando di eliminare il riferimento non soltanto agli oggetti, ma anche ai vari tipi di condizionamento contenutistico (religioso, politico, sociale). Molti artisti, traendo spunto anche dalle opere del connazionale Vladimir Tatlin (rilievi astratti di composizione polimaterica: cartone, gesso, legno, metallo, ecc.), utilizzarono materiali nuovi, insoliti, come l’acciaio e il vetro, mai considerati in precedenza nelle opere d'arte. Queste forme astratte e geometrizzanti venivano progettate per essere riproducibili applicando la meccanica industriale al fine di una distribuzione di massa. Rodchenko e Lissitsky in particolare, con il linguaggio suprematista, sfrutteranno la potenzialità industriale per comunicare a tutti i livelli della società.
Il Costruttivismo (in russo konstruktivizm), fondato da Vladimir Tatlin (1885-1953) e da Aleksandr Michajlovič Rodčenko, si sarebbe tradotto in un programma politico in cui tutte le arti venivano indirizzate verso scopi sociali e spiccatamente nella pianificazione urbanistica. Malevic e Tatlin, che avevano stretto amicizia prima dell'inizio della Grande Guerra, nel febbraio del 1915 organizzarono una mostra a Pietroburgo dove esposero una ventina di opere ciascuno. Fu un sodalizio di breve durata, tuttavia: già nel dicembre dello stesso anno, in una successiva esposizione, le loro opere vennero presentate in due sezioni nettamente distinte, evidenziando la differenza ormai visibile delle rispettive ricerche. In seguito alla Rivoluzione del '17, artisti, poeti e scrittori finirono con l'organizzarsi in vari gruppi di tendenza, forti, nei primi anni, dell'appoggio del governo sovietico, solidale nei confronti dell'avanguardia. L'allora commissario all'Istruzione, Lunaciarskji, nutriva un forte interesse per l'arte moderna e si prodigò per incoraggiarla e diffonderla, così le opere degli innovatori, fino al 1927, apparvero in tutte le maggiori esposizioni ufficiali, in patria come all'estero. Tatlin e i suoi seguaci, dal canto loro, incitavano gli artisti a dedicarsi a un'attività direttamente utile alla società: pubblicità, architettura, produzione industriale (industrial design).
Non tutti concordarono però con l'impostazione tatliniana. Il rifiuto delle "strutture inutili," la negazione dell'arte come pura attività estetica, non piaceva al gruppo di costruttivisti al quale afferivano i fratelli Gabo e Pevsner. In quei tempi molto si discuteva sul futuro dell'arte, da parte di pittori, letterati, critici e filosofi, durante incontri fissati presso l'Istituto d'Arte e mestieri di Mosca, dove alcuni di questi insegnavano. Durante queste riunioni, la diversità dei punti di vista divenne sempre più evidente. Le posizioni estremiste delle due fazioni circa la concezione dei problemi estetici impediva una visione esatta dеllа direzione in cui sarebbe stato possibile lavorare. Nel 1920 uscì il Manifesto di Gabo, in cui era racchiusa la teoria di un valore assoluto dell'arte, indipendente dalla società, sia essa capitalista, socialista o comunista. Gabo, rifiutava il passato proprio per il fatto che non esisteva più e rifiutava il futuro perché nоn esisteva ancora: La tecnica, la macchina rivendicavano il ruolo di una forza nuova, capace di modificare l'avvenire della nazione e degli uomini che l'abitavano, confinando l'arte nel solo ambito dell'artigianato, della grafica pubblicitaria e dell'architettura. Le critiche che Gabo lanciava contro Tatlin non erano dunque, del tutto insensate. In quegli stessi anni, il filosofo, economista e medico Bogdanov (Aleksandr Malinovskij) gettava le basi per il movimento "Proletkult", secondo cui la cultura borghese era da condannare in toto e andava sostituita con la cultura proletaria, che doveva avanzare per tre vie parallele: quella economica, quella politica, e quella culturale. L'individualità, in fase di regime socialista, doveva fondersi nella coscienza collettiva; l'arte intesa come espressione individuale doveva scomparire. Nonostante le varie tendenze, il fervore culturale rimase proficuo per alcuni anni, anche grazie alla sensibilità di Lenin che seppe mantenere un clima di libertà e ragionevole discussione tra tutte le tendenze: In quei tempi in Russia ci si poneva soprattutto il problema della diffusione delle idee socialiste attraverso l'arte, e vennero realizzati rapidamente grandi monumenti in materiale provvisorio per rappresentare gli artefici e i filosofi del movimento operaio, da collocare in paesi e città. Dopo la morte di Lenin (1924), la linea culturale ufficiale nelle arti si indirizzò in una ripresa del realismo ottocentesco, il libero dibattito slittò sempre più sul dibattito politico, la critica estetica finì cоl dover fare i conti con la fedeltà nei confronti della Rivoluzione. Infine il potere sovietico negò ogni autonomia di ricerca, riducendo l'arte ad uno strumento di propaganda politica che porterà al "Realismo Socialista" - un costruttivismo utilitaristico in cui l''oggetto', quale che fosse, era sempre il risultato di un progetto finalizzato a un prodotto utilizzabile nella vita quotidiana, secondo concetti funzionali. Tatlin, verso il 1914, dopo aver definitivamente abbandonato i suoi legami col cubismo, rifiutò la relazione soggetto-oggetto, affermando che l'opera d'arte era di per se "oggetto" autonomo (nel 1919 realizzerà il suo progetto per il Monumento alla Terza Internazionale). Le sue idee influenzarono molti giovani artisti, come El Lissitzky (architetto, pittore, grafico e teorico del movimento), il quale svolse anche un'intensa attività di relazioni, in continuo rapporto соn Gropius, Mies, van Doesburg. Costui, assieme agli altri architetti del gruppo Asnova (Ladovsky, Melnikov, Vesnin, Golosov), vedeva l'architettura russa come immagine-simbolo di una società socialista autocostituita, e che trovava forma nel geometrismo. Vennero intraprese soluzioni formali innovative e audaci, come le strutture portanti in vista, tralicci metallici, saldature evidenziate di proposito, per ottenere dinamismo e simbolismo, superando i canoni borghesi dell'arte celebrativa e rappresentativa. Nel 1920 Rodčenko e Varvara Stepanova pubblicarono il "Programma del Gruрро produttivista", assumendo una posizione assolutista e rivoluzionaria: «Abbasso l'arte, viva la tecnica. La religione è menzogna, l'arte è menzogna. ...abbasso il mantenimento delle tradizioni artistiche, viva il tecnico costruttivista. Abbasso l'arte, che solo maschera l'impotenza dell'umanità» (De Micheli). A tutto questo si opposero, nell'ambito del Costruttivismo, Gabo e Pevsner, che nel 1920 pubblicarono a Mosca il "Manifesto realista" in cui veniva proclamata la realtà autonoma dell'arte costruttivista. Il termine Konstruktivizm, comunque, quale denominazione generale delle diverse tendenze artistiche già indirizzate in tal senso, venne usato per la prima volta da V. Stepanova, in una conferenza tenuta all'Istituto di Cultura Artistica di Mosca e divenne poi di uso comune. La corrente artistica si diffuse in Ungheria e in Polonia, quindi in Germania, dove si formò un nuovo centro di ricerche costruttiviste. E. Kállai nel 1924 dichiarerà:: Anche se questa divisione in due tendenze principali retrospettivamente non è più condivisibile, negli esordi russi del movimento vanno comunque ricercate le radici di quegli sviluppi che dalle opere di Malevič, Tatlin, Rodčenko, portarono al diffondersi in Europa dell'arte costruttivista.
Nell'Europa occidentale, il successo della straordinaria fioritura architettonica russa comincia comunque nel 1925, quando il padiglione sovietico di Melnikov (rettangolare a struttura lignea, tagliato diagonalmente), ottiene il Gran Premio all'Esposizione Internazionale di Parigi. Nel 1930 al concorso bandito per il Teatro statale di Charkow e реr il Palazzo dei Soviet di Mosса, partecipano i grandi nomi dell'architettura moderna europea. L'architettura mondiale, così, è ormai sul punto di riconoscere in quella sovietica una guida per il futuro, ma ecco che il Regime decide di opporsi all'arte della rivoluzione, controllandone e convogliandone le attività verso l'intransigente retorica del "realismo socialista". L'Associazione Architetti Proletari fu pure propensa ad un ritorno alle fonti tradizionali, ritenute più comprensibili dalle masse, e progressivamente si ripiegò su posizioni meno audaci. Ai costruttivisti va comunque attribuito il merito indiscutibile del metodo d'insegnamento tecnico-estetico impartito agli allievi dell'Istituto d'arte di Mosca, linea didattica poi ripresa dal Bauhaus e da varie scuole americane. In Italia e Jugoslavia il movimento costruttivista viene capeggiato da August Cernigoj, il quale era entrato in contatto con esso durante i suoi soggiorni di studio all'Accademia di Monaco e al Bauhaus di Weimar. Il suo maestro Moholy Nagy sarà per lui il tramite diretto con il Costruttivismo russo, oltre che lo stimolo ad organizzare, nel 1925, al Padiglione Jakopic di Lubiana, una mostra didattica sullo sviluppo storico delle varie tendenze artistiche fino alle teorie costruttiviste. A Trieste, ancora nel '25, Cernigoj fondò in sodalizio con Emilio Dolfi e Giorgio Carmelich la "Scuola di Attività Moderna", e il "Gruppo Costruttivista Triestino", a cui aderirono Edvard Stepancic, Ivan Poliak, Zorko Lah, Ivan Vlah e Thea Cernigoj. Giorgio Catania (Leggi tutto su Arte Ricerca)

PAESAGGIO E FOTOGRAFIA

Nel 1863, il fotografo inglese Samuel Bourne effettuò il suo primo viaggio sull'Himalaya. La sua spedizione contava trenta portatori, impegnati per lo più a trasportare le provviste e l'enorme attrezzatura che accompagnava i fotografi del tempo (con la tecnica del collodio ogni scatto richiedeva il montaggio di una camera oscura portatile); durò dieci settimane, durante le quali fu raggiunto Passo Taree, a 4658 metri di quota, e fruttò 147 negativi di zone nelle quali pochissimi occidentali avevano messo piede. L'anno dopo Bourne intraprese una spedizione ben più ambiziosa: accompagnato da una sessantina di coolies passò nove mesi nell'esplorazione del Kashmir, riportando 500 negativi. Nel 1868, Bourne realizzò la sua spedizione più ambiziosa, affrontando con ottanta portatori e un intero gregge di animali (il problema più drammatico era rappresentato dai rifornimenti) i passi più alti dell'Himalaya. Per molti anni, la sua fotografia di passo di Manirung, a 5670 metri, rappresentò la massima altitudine mai raggiunta da un'attrezzatura fotografica. I sette anni passati da Bourne a preparare la "catalogazione fotografica" dell'Himalaya sono emblematici dei due atteggiamenti nei confronti del paesaggio che animarono l'intera fase iniziale della fotografia. Da un lato, il fotografo doveva certificare, attestare, esplorare, documentare. In una società che riteneva ancora fosse proprio diritto regolare il mondo, nel clima di un colonialismo ancora privo di dubbi, la fotografia assumeva il ruolo di strumento di conoscenza, e, all'occorrenza, di catalogazione: una sorta di "scheda segnaletica" del reale. Tutto ciò non giustifica tuttavia operazioni ciclopiche come quelle di Bourne. Dietro c'era anche una sorta di anticipazione della "filosofia dell'estremo" che avrebbe percorso poi le attività umane, dalle esplorazioni dei Poli alla conquista alpinistica delle vette, quasi sempre in compagnia di un apparecchio fotografico. L'ansia era quella di essere dove nessuno era mai stato, e di far vedere ciò che nessuno aveva ancora visto. Quest'ansia, sul piano fotografico, non è spiegabile se non si tiene conto della contraddizione congenita all'interno della quale la fotografia è nata e cresciuta. Straordinario strumento di riproduzione, capace di rendere una rappresentazione biunivoca di ciò che "posa" davanti all'obiettivo, il processo fotografico stupisce dapprima per questo suo rapporto intimo, indissolubile, apparentemente inossidabile con il reale. Nel momento in cui i primi dagherrotipi irrompono all'interno della società occidentale, tuttavia, la cultura vede realizzarsi nella maniera più evidente una scissione carica di conseguenze: da un lato i progressi delle scienze fisiche e della tecnologia producono una conoscenza sempre più approfondita e "produttiva" dei materiali, sino a fondare un sistema di approccio alla realtà e di pensiero che culminerà nel materialismo positivista; dall'altro la cultura "estetica" subisce ancora i contraccolpi dell'irruzione di una categoria romantica, quella del sublime, che richiede all'artista di mostrare ciò che non può essere visto, di parlare di ciò che le parole non possono esprimere, di esplorare i luoghi dello spirito nei quali non è possibile entrare. Nelle arti figurative, il sublime si identifica spesso con il paesaggio: un paesaggio "al limite dello spirito", fatto di tempeste, di nubi, di mari in burrasca, di spiagge battute dalle onde; territori del visibile-invisibile nei quali la fotografia, legata a ciò che sta davanti all'obiettivo, non può per sua costituzione entrare. La fotografia mostra ciò che è, proprio nel momento in cui è in corso la dissoluzione turneriana di ciò che è visibile, in nome di ciò che è nella mente, o in qualche altro luogo in qualche modo magico. La fotografia ha bisogno di qualcosa che sta davanti all'obiettivo, riprende magnificamente gli oggetti, ma è impedita nel riprendere le idee, i turbamenti dell'anima, le scosse della coscienza. Tutto ciò ha delle implicazioni che sono anche sociali. Il fotografo si trova automaticamente schierato dalla parte dell'ingegnere, del biologo, del botanico; ma ha gravi difficoltà a farsi ammettere nel mondo degli artisti. La stupida domanda: "Ma la fotografia è arte?" nasce non già dall'assenza di intenzioni o di capacità estetiche da parte del fotografo, ma dalla difficoltà costitutiva del processo. Per uscire da questa contraddizione, il fotografo non ha che una strada: se non può riprendere ciò che non può essere visto, perché sulla lastra e poi sulla pellicola nulla risulterebbe, non gli resta che fotografare ciò che nessuno sinora ha visto. E così Samuel Bourne non è solamente alla ricerca della catalogazione fotografica dell'Himalaya; il suo tentativo, attraverso ciò che gli altri non possono vedere, è di entrare, superando i cinquemila metri di quota, in una fettina del sublime, pur in compagnia di un mezzo che apparentemente impedisce tutto ciò, e non solo perché ci vogliono schiere di indigeni per trasportare l'attrezzatura. Nella stessa maniera, sin dai primordi la fotografia ci fornisce abbondanti esempi di immagini pornografiche: un'altra scorciatoia, questa volta attraverso "ciò che non deve essere visto". L'intreccio tra lo strumento di schedatura e l'arte che non può essere continua a lungo. Le riprese aeree, sino ai rilievi del satellite, sono un caso esemplare: da un lato consentono di trasmettere informazione (nella prima guerra mondiale gli aviatori decollavano quasi sempre in compagnia di un apparecchio fotografico), dall'altro mostrano ciò che altrimenti non può essere visto. Le lagune di Grado riprese dall'aereo riescono a trasformarsi in un'esperienza estetica. L'altra via è quella della testimonianza: il fotografo di guerra mostra ciò che pochi hanno potuto vedere, e così la maturazione della fotografia, a metà del secolo scorso, è popolata di campi di cadaveri, a Gettysburg come in Crimea: sinché gli stati maggiori non si renderanno conto che a mostrare troppo, della guerra, si finisce per dar corda a quelli che la guerra non la vogliono fare: e così spariranno i cadaveri, e le trincee si animeranno di eroi che sfidano il pericolo, contribuendo a un'estetica che culminerà da un lato nei massacri della Prima guerra mondiale, dall'altro nell'iconografia virtuale, interamente costruita ad uso dei media, della Guerra del Golfo. E tuttavia rimarrà intatto il problema di fondo, quello di far entrare il fotografo nel club degli artisti. Per ottenere questo mezzo, il fotografo dovrà imparare a negare il suo mezzo; la fotografia dovrà imparare a mentire. Questo processo avrà inizio verso la fine del secolo, tra le elites intellettuali anglosassoni, più sensibili alla discriminazione sociale: la fase storica chiamata pittorialismo, basata sullo sfumare del reale in ombre meno distinte, e nello stesso tempo nella costruzione quasi scenica dei soggetti, rappresenterà l'apice della contraddizione. Ma il "mentire fotografico" continuerà, anche se per vie più sofisticate. E così la reazione al pittorialismo, quella denominata "della fotografia diretta", troverà il suo apice in Ansel Adams, grande paesaggista statunitense. Eppure, per riprendere le cime battute dalla tempesta della Yosemite Valley, Adams dovrà inventare una tecnica assolutamente artificiale, che consente il controllo da parte del fotografo di ogni tonalità di grigio dell'immagine: non c'è nulla di meno realistico, di più costruito, del suo apparente iperrealismo. In questo senso Ansel Adams si muove nella stessa direzione delle avanguardie europee degli anni Trenta, che scompongono l'immagine, demoliscono i canoni, utilizzano la fotografia all'interno di altri processi. Le due vie aprono la strada a quella "crisi del reale" che mette in dubbio la capacità primigenia della fotografia, quella di mostrare, di conoscere, e alla fine di essere creduta. Le coscienze del secondo dopoguerra sono dominate dalla certezza di essere uscite da una realtà nella quale la fotografia è stata utilizzata per la costruzione dei grandi sistemi politici; da una gigantesca guerra nel corso della quale la fotografia è stata, assieme al cinema, un'arma strategica. La crisi del reale diventa allora messa in moto di meccanismi di rigetto, tentativo di smontare non quelle propagande, ma ogni possibile propaganda. L'avanguardia del reportage, da Robert Frank a Diane Arbus, si impegna a smontare i meccanismi del racconto, oppure a mostrare ciò che nessuno abitualmente ha voglia di vedere. E uno straordinario dilettante solitario, Mario Giacomelli, rilegge il paesaggio marchigiano, trasformandolo in grafismo, e poi in luogo dello spirito. La crisi del reale apre la strada al meccanismo concettuale in fotografia prima che nelle altre arti figurative: sicché è quasi naturale che, quando l'artista concettuale si mette alla ricerca di un mezzo, trovi pressoché inevitabilmente la fotografia quale soluzione naturale. Nell'intreccio tra uso strumentale del mezzo e "pura fotografia" si crea un campo indistinto, un terrain vague, che gli artisti prediligono per la creazione al suo interno di un campo intensissimo di ambiguità, nel riaffiorare della contraddizione stavolta tra ciò che la fotografia mostra e ciò che la mente dell'artista ha progettato. Così la fotografia diventa strumento di documentazione della land art, ma nello stesso tempo è creazione di paesaggio immaginario per artisti come Jan Dibbets. L'immagine di paesaggio subisce negli ultimi anni altri due tipi di interazioni. La prima è tipicamente italiana, ed è costituita dalla fotografia militante, strumento di intervento politico: l'analisi del degrado del paesaggio diventa uno degli strumenti di denuncia dell'inadeguatezza della struttura politico-amministrativa, e dà luogo, ad esempio, al diffondersi della cultura ambientale. La trasformazione subita dall'Italia nel dopoguerra, una delle più intense della sua storia, ha lasciato una scia di danni estetici e paesaggistici che il fotografo esplora dapprima come motivo di denuncia, ma poi come ricerca di per sè, come indicazione delle nuove strade di esperienza visiva che il reale ha reso possibile. L'altra interazione ha radici più lontane, prevalentemente statunitensi, e cerca di inserirsi in una fase del pensiero architettonico che predica il ritorno alla cura dei piccoli segni, della minuzia della progettazione, al passaggio dalla grande progettazione di interventi colossali alla piccola progettazione dei dettagli minimi, chiave della qualità delle cose. In questo senso, la fotografia di quella corrente che è chiamata dei "new topographers" svolge la funzione di esplorare proprio realtà minime, che normalmente sfuggono alla catalogazione estetica e visiva; e il suo unico handicap è quello di aver realizzato nel giro di pochi anni un manierismo che ha richiamato molti esponenti giovani. E infine esiste un'altra interpretazione del paesaggio, quella che cerca, attraverso la riproduzione di luoghi e paesaggi, di identificare dei "luoghi dello spirito", delle indagini su ciò che vi è di permanente, di primigenio, nella nostra cultura visiva. I quattro autori qui rappresentati lavorano, con modalità diverse, su questo tema comune, una sorta di confine tra il visibile e l'infinito. Elio Ciol ha percorso a lungo i paesaggi del Friuli, della Toscana e dell'Umbria, nell'ambito di un'attività fotografica lunga ed estremamente variegata. In particolare ha dato nobiltà visiva a una terra pressoché sconosciuta, la fascia pedemontana della Destra Tagliamento, creando un'immagine "nobile" di un paesaggio considerato tradizionalmente povero, e comunque tagliato fuori dai circuiti estetici tradizionali. La sua operazione può essere definita quella di una "scoperta di un territorio", non ai limiti estremi delle terre conosciute, ma all'interno di un'area in qualche modo dimenticata dalla conoscenza. Lungamente tenuto ai margini da una cultura fotografica superficiale, che privilegiava la documentazione sociale, può essere valutato oggi nella sua luce di maestro, per la sua capacità di applicare il sentire permanente dell'uomo ad aree trascurate, cosi come a zone note a tutti, come la "sua" Assisi. George Tadge si impegna a ricercare più di ogni altro quanto vi è di permanente nell'imprint visivo con il quale apparentemente siamo nati e cresciuti. Portatore di un'esperienza fotografica particolarmente solida, basata sull'impiego del grande formato, esplora gli elementi semplici: gli alberi, le colline, i cieli. Con il passare del tempo, il suo stile diventa via via più essenziale, in questa sorta di "ritorno alle origini visive" nel quale è aiutato dal carattere della terra che gli è più familiare, la Toscana e l'Umbria. Un percorso simile a quello di Carmelo Nicosia, siciliano, il quale svolge la sua esplorazione estetica sui litorali, in una ostinata ricerca del confine fra terra, cielo e mare. La sua esperienza si è evoluta negli anni verso un linguaggio sempre più essenziale, nel quale la realtà si manifesta attraverso la luce e attraverso segnali sempre più piccoli. Le sue "Riflessioni a mare" sono nate in Sicilia, quasi a riflettere il carattere e l'ossessione del vivere da isolani, ma si sono poi trasferite su altre coste. Piccolo Sillani intreccia meccanismi più complessi, specchio della sua collocazione intenzionalmente equivoca, di un rapporto mai risolto tra fotografo e artista concettuale che produce immagini fotografiche. Anche nel suo caso i protagonisti sono elementi essenziali, basilari, del paesaggio: l'orizzonte, l'albero, la luce, le materie. Il suo percorso tuttavia viene continuamente arricchito dalla presenza di sovrapposizioni concettuali, di inserimenti manuali, di progettazioni via via più complesse. In questi percorsi viene via via evidenziato un ritorno alle origini, una ricerca attraverso elementi eterni e permanenti. La realtà visiva cerca così di essere uno specchio dell'anima: come nelle spedizioni di Samuel Bourne, la fotografia cerca per questa strada, ma ora senza l'angoscia di doversi negare, di entrare nei terreni inesplorati, di indagare ciò che non può essere visto attraverso ciò che viene mostrato. Fabio Amodeo

AMALRIC WALTER - LA CERAMICA

Amalric Walter nasce nel 1870 a Sèvres, dove all'età di quindici anni, seguendo le orme del nonno e del padre (pittori-decoratori presso la locale fabbrica di porcellane), inizia il suo apprendistato presso l'Ecole de Céramique.
La città di Sèvres ospitava fin dal 1756 la celebre manifattura, trasferitasi da Vincennes per volere di Luigi XV, dove un'élite di abili pittori, scultori e chimici produceva manufatti per una committenza raffinatissima ed estremamente esigente - venivano eseguite statuine, preziosi servizi da tavola, ritratti in porcellana, vasi di incomparabile perfezione; il tutto destinato alle sontuose tavole di Versailles e delle maggiori corti d'Europa. L'enorme successo della Manifattura di Vincennes-Sèvres, supportato dai privilegi reali concessi da Luigi XV, fu il risultato della congiunzione tra l'eccellenza dei materiali e l'apporto di artisti di indiscussa fama quali Francois Boucher, Giovanni Claudio Ciambellano, Jean-Claude Duplessis (orafo del Re), Etienne-Maurice Falconet (nominato chef d'atelier nel 1757). Nel 1800, sotto la direzione di Alexandre Brongniart, la Manifattura venne modernizzata nei processi produttivi e vennero introdotti nuovi temi, anche ad opera di Alexandre-Évariste Fragonard. Nel 1824, sempre ad opera di Brongniart, venne aperto al pubblico un Museo con manufatti in terracotta, porcellana, vetro e smalti dipinti (di ogni periodo e paese), un vasto repertorio delle "Arti del fuoco". Denis Désiré Riocreux ne divenne il primo curatore. Nel 1876, sui terreni confinanti con il parco di Saint Cloud, vennero costruiti nuovi edifici atti a contenere la vecchia Manifattura Nazionale di Sèvres e l'ex Museo Nazionale della Ceramica. Amalric Walter, nel 1893, dopo il servizio militare, venne assunto come decoratore di vasi in ceramica nella Manifattura di Porcellane di Sevres.
Una delle caratteristiche più apprezzabili nelle opere di Walter è certamente il suo controllo dettagliato e preciso del colore, maestria acquisita durante la sua lunga formazione all'Ecole de Céramique di Sevres, dove entrò a conoscenza delle tecniche di pittura e smaltatura e dei metodi di fabbricazione con modelli e stampi. Queste competenze specifiche gli furono certamente di grande aiuto quando più tardi si dedicò alla produzione in pâte-de-verre, alla Vetrerie Daum Nancy prima, e successivamente, per proprio conto. In questa complessa tecnica, l'artista fece anche uso di oli vegetali - l'olio di canfora e l'olio grasso (realizzato per riduzione della trementina), gli stessi ampiamente usati nella ceramica come collante nei pigmenti. La tecnica di base è quella scoperta dai cinesi fin dall'antichità e adottata in tutte le fabbriche di ceramica e porcellana: il colore secco, macinato finissimo, viene accuratamente miscelato con una quantità di olio grasso, ottenendo la stessa consistenza della pittura ad olio. Il pezzo in ceramica o porcellana, una volta decorato, viene sottoposto a cottura, processo durante il quale l'olio evapora, e i colori si amalgamano all'oggetto. La produzione ceramica di Amalric Walter è contenuta, cronologicamente spalmabile dalla fine dell'Ottocento (il 1895 rappresenta una datazione certa, per esistere rari esemplari datati e firmati A. Walter 95.), fino agli inizi del secondo conflitto mondiale. Prima del 1903, esistono esemplari firmati A. Walter Sevres. Quando l'artista inizia la sua collaborazione con le vetrerie artistiche dei Fratelli Daum di Nancy (1903), che molto lo vedrà impegnato nella realizzazione di esemplari in pasta di vetro, questa produzione si riduce drasticamente, forse viene interrotta, per riprendere dopo il 1918. Agli inizi della Grande Guerra (1914-18), la manifattura Daum è costretta a sospendere la produzione artistica, e di Walter non abbiamo più notizie (forse parte per il fronte), se non a conflitto cessato, quando decide di lasciare la Daum per mettersi in proprio. Apre un atelier, al numero 20 di rue Claudot dove inizia la produzione di pâte-de-verre e marginalmente di ceramiche. A questo punto, bisogna comprendere che Walter passa da una grande industria, quale era la Daum di allora, con centinaia di tecnici e artisti a disposizione, strumentazioni e forni di qualità, ad un laboratorio improvvisato con risorse economiche limitate. "Gli inizi non furono felici, ma finisce per ottenere un buon vetro omogeneo, trasparente o opaco a seconda delle esigenze della modellazione.... nel 1920, A. Walter può produrre le sue prime opere perfette." (Noël Daum, 1984). Le ceramiche del primo periodo sono smaltate, lucide, sulle orme di Paul Milet e Joseph-Théodore Deck, nello stile imperante del momento - l'artista da prova di maestria nella tecnica e nell'uso del colore. Dopo il 1918, nel nuovo laboratorio, sperimenta nuove tecniche. I primi risultati sono incerti, la superficie dei vasi è mezza opaca e mezza lucida, sovente di un opaco granuloso - il lucido anche non riuscito - l'effetto finale è sgraziato e non convincente.
Poi, come per incanto le opere sembrano raggiungere la perfezione. Le superfici, opache, sono vellutate e al tatto rivelano rilievi che ricordano i vetri Gallè. Paesaggi pastello dai decori tenui, dove i rilievi, realizzati con sottili sovrapposizioni di materia decorata a smalto, creano un effetto crepuscolare, romantico. "Chimico geniale, colorista potente, Walter non impasta l'argilla" "Per la modellazione dei suoi pezzi, usa artisti contemporanei, gli amici, oppure i grandi scultori dei secoli passati." (Noël Daum, 1984). Walter utilizzava una gamma limitata di colori, circa tredici, sia in forma lucida, sia opaca: Blù turchese (Ossido di rame); Blù cobalto (Ossido di cobalto); Verde cromo (Ossido di cromo); Marrone scuro (Ossido di manganese); Terracotta (Ossido di ferro); Giallo acido (Cromato di potassio); Giallo opaco (Ossido di zinco); Arancio-giallo/rosso (Biossido di selenio); Toffee-giallo (Solfuro di cadmio); Rosa (Monocloruro di oro); Marrone Borgogna (Giallo di Marte); Verde smeraldo (Ossido ferroso); Bianco (Ossido di stagno). Giorgio Catania (Leggilo su Arte Ricerca)

Emile Gallé (Nancy 1846 – 1904)

Emile Gallé, probabilmente il più grande maestro dell'Art Nouveau, nasce a Nancy il 4 maggio 1846 da Charles Gallé e Fanny Reinemer. Dopo gli studi classici, si affianca al padre che dirige un'azienda appartenuta al nonno materno, ora Veuve Reinemer et Gallé, che comprende la fabbrica di ceramiche Saint-Clément (nell'omonima cittadina) e la decorazione e il commercio di cristalli fatti soffiare a Saint-Denis e a Pantin e soprattutto alla vetreria dell'amico Mathieu Burgun, la Burgun-Schverer & C. di Meisenthal. L'ambiente familiare predispone il futuro del giovane Emile: appena diciassettenne egli fornisce al padre i disegni, composizioni floreali e stemmi nobiliari, per gli ateliers di gobeleterie e ceramica. Intanto segue corsi di disegno e di botanica; il suo amore per la natura lo spinge a raccogliere erbe e fiori nelle ricche foreste della Lorena e dei Vosgi, dell'Alsazia sino alle Alpi Savoiarde, italiane e svizzere. Durante il soggiorno di un anno nel 1875 a Weimar, importante centro culturale della Germania, studia il tedesco, la letteratura, le scienze e la mineralogia, approfondisce la conoscenza della musica e diventa un convinto wagneriano. Al ritorno, nel 1866, decide di lavorare a Meisenthal presso la Burgun-Schverer & C., dove resterà fino al 1868. Fa il suo apprendistato nel laboratorio di incisione diretto da Désiré Christian, suo coetaneo, al quale si lega in amicizia. Lo delegherà in seguito ad essere il supervisore dei suoi progetti che commissiona alla vetreria di Meisenthal secondo un segreto accordo durato dal 1885 al 1896. In seguito riprende la collaborazione con il padre. Emile, noto per le sue idee patriottiche, parte volontario nella guerra franco-prussiana del 1870; l'anno successivo, quando l'Alsazia e una parte della Lorena passano alla Germania, rimane isolato dagli amici di Meisenthal e va a Parigi. Al Museo del Louvre si appassiona ai vetri smaltati dell'antica arte islamica e si mette a studiarne le tecniche. Sempre durante il suo soggiorno a Parigi, prende interesse alla produzione vetraria di artisti contemporanei quali Joseph Brocard, Auguste Jean e Eugène Rousseau; nel 1871 si sposta a Londra dove può ammirare al British Museum il famoso vaso di Portland, rendendosi cosciente delle possibilità offerte da questa tecnica. Nel 1878, all'Esposizione Universale di Parigi vedrà le copie dello stesso vaso eseguite dagli inglesi John Northwood e Joseph Locke, ne rimarrà nuovamente colpito e si deciderà ad iniziare gli studi che lo porteranno a specializzarsi in questa tecnica. Gallé padre fa costruire a Nancy in una vasta proprietà i nuovi ateliers e la nuova residenza per la famiglia chiamata La Garenne, circondata da quel famoso giardino botanico in cui il giovane Emile trova la sua diretta fonte d'ispirazione. Il trasferimento avviene nel 1873: in questa casa nasceranno le quattro figlie di Emile dopo il suo matrimonio nel 1875 con Henriette Grimm, figlia di un pastore protestante. Tra il gennaio 1877 e l'anno seguente, Charles Gallé si ritira gradualmente dagli affari e lascia al figlio Emile la responsabilità dell'impresa. È di questo periodo il viaggio di Emile in Italia (deve essere arrivato fino a Roma); sappiamo, dai suoi appunti, della sua emozione per la visita del giardino botanico di Villa Troubetzkoi sul Lago Maggiore, dove è lo stesso principe ad accompagnarlo in quell'incantevole Eden indicandogli in lieta conversazione i nomi delle innumerevoli piante qui coltivate.
Sempre attento e appassionato ai problemi problemi della sua terra, Gallé ha a cuore le sorti dell'Alsazia e della Lorena, per questo inizia nel 1877 a incorporare la croce di Lorena alla sua firma, come protesta alle conseguenze della guerra francoprussiana. Seguendo la tradizione familiare, si dedica personalmente alla ceramica fino al 1893-94: pezzi in ceramica tenera stannifera, più propriamente maioliche, denominate in Francia "faïences" (nome che deriva dalle maioliche italiane di Faenza). A seguito degli sviluppi del suo lavoro, nel 1885 fa costruire nuovi ateliers e un nuovo forno per facilitare la lavorazione della ceramica che faceva modellare a Saint-Clément (dal 1864 al 1875) e poi a Raon-L'Etape nei Vosgi, oppure in collaborazione con la Faïenceries di Choisi-le-Roi. Lo stesso anno nei nuovi ateliers Gallé dà avvio all'ebanisteria. In questa disciplina il nome del maestro si inserisce fra le grandi firme di fine secolo, quelle di Hector Guimard (1867-1942) e degli amici e concittadini Louis Majorelle (1859-1926) e Eugène Vallin (1856-1922). Emile Gallé è giustamente considerato il maestro verrier più importante della storia del vetro. Le tecniche applicate nei suoi ateliers sono numerose e complesse. Nel primo periodo, quello che va dal 1874 al 1884, detto "trasparente", prevalgono soggetti ornamentali e storici dipinti a smalto. L'interesse per gli smalti arabi e persiani è all'origine dei suoi esperimenti; già prima del 1870, quando decora vetri per la ditta paterna, incontra non poche difficoltà per la vetrificazione poiché nel fissare gli smalti nel forno, se la temperatura è troppo bassa gli smalti non aderiscono alla superficie del vetro, se è troppo alta il vetro fonde. Gallé adatta smalti traslucidi a vetri precedentemente decorati con smalti duri e opachi, raggiungendo effetti luminosi simili alle vetrate. La smaltatura a volte ha per complemento la doratura: elaborati personaggi di ispirazione medioevale, oppure temi naturalistici vengono lumeggiati ad oro. La smaltatura sarà usata in anni successivi abbinata in certi casi ad altre tecniche. Del periodo "trasparente" sono i pezzi bleutés conosciuti come clair de lune, vetri tintati nella pasta vitrea con l 'ossido di cobalto che sono il suo primo esperimento di trattamento con gli ossidi; questi oggetti, esposti per la prima volta all'Esposizione Universale di Parigi del 1878, ottengono subito un gran successo. Grazie al suo ricettario di ossidi coloranti (ferro, manganese, rame, cromo) ottiene vetri con effetti di colori suoi propri; eventuali difetti, inclusioni di bolle d'aria e zone dalle differenti intensità di colore sono da lui abilmente sfruttati a fini decorativi. Firma la produzione di questo periodo solitamente sotto la base del vaso con incisione alla punta o a smalto, il più delle volte nero.
A partire dal 1884 nascono i vetri detti "opachi", e si moltiplicano le tecniche: craquellée, fumée, métallisée, oxidée, soufflée de bulles (spesso simulanti gocce d'acqua), mouchetés, marbrés (imitanti il marmo, l'agata e altre pietre dure), inclusioni di lamine di metallo (oro, argento, platino). Vi è la prima verrerie parlante, il vaso contenitore per pennelli dal titolo La Ballade des dames du temps jadis (da un testo di François Villon), ora al Musée de l'Ecole de Nancy. Gallé esperimenta una nuova smaltatura con cottura a piccolo fuoco, che lui stesso battezza émaux-bijoux, strati di smalti sovrapposti ad una sottile lamina di metallo che serve da base, fatta aderire al vaso per fusione. Questa tecnica permette un effetto talmente naturale che gli insetti, le ali diafane delle libellule, le elitre degli scarabei sembrano veri e tangibili. Oppure gli émaux-bijoux sono utilizzati come cabochon sapientemente colorati di smalti applicati alla superficie del vetro per simulare topazi, smeraldi, rubini e altre gemme; troviamo anche smalti inseriti a caldo fra due strati di vetro a formare un decoro, secondo l'antica tecnica del vetro églomisé. Negli anni che seguono, Gallé allarga la gamma dei colori degli smalti: ai colori forti ne aggiunge altri, spenti e tenui, i rosa a base dorata, i lilla e i violetti; e crea una novità: gli émaux champlevés. Questa tecnica (tradizionale per gli oggetti in rame: i cloisonnées) è del tutto nuova per il vetro: consiste nello scanalare, intagliare la superficie del vetro per formare i campi in cui posare gli smalti in quantità sufficiente per riempire lo scavo, in modo di pareggiare con i decori la superficie del vetro. Gallé si avventura in un' altra lavorazione: i vetri a cammeo, o a più couches: a strati (normalmente due, ma anche tre o quattro - per questo detti doppi, tripli o quadrupli) incisi in laboratorio con grande abilità al tourette, alla roue o alla molette per ricavarne il decoro negli strati di diverso colore. Spesso queste tecniche sono abbinate ad altre: l'acido fluoridrico per sgrossare oppure satinare, lo smalto per impreziosire, o la mola per rendere martellato il fondo. Le opere così eseguite si definiscono vetri incisi, intagliati o anche cesellati (dalla punta di diamante o dal bulino). La firma in questi pezzi si trova, comunemente, incisa sotto la base del vaso. Come nel secolo XVIII l'Europa era stata attratta dalla civiltà cinese tanto che si erano sviluppati motivi, disegni e decori, detti "cineserie", ora è la cultura giapponese a influenzare l'arte occidentale (perfino Van Gogh ne scrive entusiasta nella sua corrispondenza con il fratello Théo). Gallé oltre che esserne ammiratore ne è fortemente influenzato: a portargli una ventata d'arte di quel lontano paese è l'amico e pittore Tokuso Takaskhima operante a Nancy. Motivi nipponici, ora alla moda, sono presenti non solo sulle ceramiche e sui mobili di Gallé, ma anche sui vetri. Libere interpretazioni e sinuose linee, con il simbolismo, contribuiscono alla metamorfosi che segna un'epoca, facendo presagire il nuovo stile che più tardi prenderà il nome di Art Nouveau. È partendo dal 1890 che Gallé incomincia la cosiddetta "lavorazione chimica" producendo i "vetri industriali", ma non per questo di scarso valore artistico, anzi alcuni di elevata qualità. La lavorazione, effettuata con la tecnica della gravure à l 'acide per vetri a cammeo, la cui esecuzione è tutt'altro che facile (e inoltre nociva per le esalazioni dell'acido), consiste nell'incidere, in negativo o in positivo, il vetro a più strati per mezzo di bagni d'acido fluoridrico, operazione ripetuta varie volte seguendo il disegno a matita bianca indelebile ottenuto con il sistema dello spolvero, e ricoprendo di volta in volta con bitume o vernice giudaica quelle parti che non si vogliono intaccare. Emile Gallé, ormai artista affermato, intende fare un'arte accessibile a tutti. Avvalendosi dell'incisione ad acido che abbrevia i tempi della lavorazione, produce vetri paragonabili alla grafica o ai multipli d'oggi. I vetri sono realizzati in serie. La documentazione ci rivela che all'epoca il costo di lavorazione, per piccoli vasi, si aggirava sui 10 franchi ognuno, mentre per un pezzo elaborato il costo saliva a 300 franchi, per arrivare a 1.300 franchi e più per gli esemplari unici. La firma incisa ad acido in rilievo a cammeo (raramente in creux alla ruota o alla punta), sempre sul fianco del vaso, contraddistingue questa produzione. Da questo momento, sostenuto dalla produzione commerciale, Gallé può meglio finanziare le sue ricerche e i suoi esperimenti per opere di maîtrise, ritrova nuovo slancio creativo e i processi di ideazione e di realizzazione di nuove pièces uniques di straordinario livello artistico non si fanno attendere. Con il procedimento classico dei vetri applicati a caldo, Gallé ottiene opere eccezionali che chiama Les applications sculptées. Dalle prime anse e dai cabochon, il maestro passa alle applicazioni sul corpo del vaso, con elementi in vetro preparati alla pinza e con le forbici per ottenere le forme dei soggetti. Petali, pistilli, foglie e rami o le componenti di una libellula, farfalla o scarabeo sono minuziosamente preparate sul banco con il vetro a temperatura costante. A saldatura avvenuta, intervenendo con gli strumenti per incidere - ruota, moletta -, le applicazioni vengono modellate scolpendole per dar loro un aspetto veristico. Ai decori applicati e scolpiti Gallé si dedica nell'arco di tempo che va dal 1890 alla fine dei suoi giorni. Tra i vasi di maggior prestigio vi sono: Le Lys et l'Orchidée, Le Figuier, aux Hippocampes, La Forêt guyanaise e La Libellule, la coppa La Feuille du rhubarbe e tutta la magnifica serie dalle diverse dimensioni di vasi, coppe e flaconi, aventi per tema le languide rose che portano il titolo generico Roses de France; di eccezionale livello artistico è l'interpretazione surreale La main aux algues et aux bagues del 1904, enigmatica scultura in vetro soffiato marmorizzato e striato. L'innovazione tecnica, senza dubbio la più importante e originale, è la marqueterie. L'artista l'esperimenta nei primi anni del '90 per giungere a risultati soddisfacenti nel 1898, quando, per assicurarsene l'esclusiva, ne deposita il brevetto sotto il nome Marqueterie de verres ou cristaux. Contemporaneamente deposita un secondo brevetto per un'altra tecnica che gli permette di ottenere nuovi effetti inseriti fra due strati di vetro o cristallo, o direttamente sulla couche esterna, che chiama Patine sur cristal et stirverre, il cui principio consiste nello sfruttare la polvere delle ceneri che si accumula durante la combustione. Ma è la marqueterie che renderà famoso il maestro. L'esecuzione è simile all'intarsio in ebanisteria: alcune lamelle di vetro colorato dalle forme predeterminate, vengono dal vetraio incastonate direttamente nel corpo del vaso incandescente e molle secondo un ordine prestabilito, quindi il vetro ancora caldo viene fatto rotolare sulla lastra di marmo o di ghisa per dissipare e fondere le asperità rimaste. Una volta modellato e ricotto, il vaso, a raffreddamento avvenuto, viene inciso alla ruota per determinare il decoro. In alcuni casi viene aggiunto uno strato di vetro o cristallo trasparente a ricoprire tutto il vaso, in altri, alla tecnica della marqueterie si aggiungono decori applicati in rilievo. Questo procedimento, spinto da Gallé al suo estremo limite, era già realizzato, in maniera molto più semplice, fin dall'antichità: usato in alcuni millefiori di epoca romana, per le inclusioni a caldo bizantine, dai veneziani in epoca rinascimentale; nel 1885 i fratelli Boutigny iniziano a inserire a caldo piccoli frammenti di vetro colorato nel vaso, che chiamano Intarsia. Questa lavorazione lunga e laboriosa implica molti rischi per rotture o fessure nel continuo riscaldare il vetro per mantenere molle la pasta, e richiede grande abilità e sveltezza per inserire i decori. Tuttavia la richiesta da parte dei collezionisti di Gallé è tale che per certi modelli egli è costretto ad operare in piccole serie. Un derivato degli intarsiati sono i Gallé Etudes, così firmati sotto la base, vetri vittime di incidenti di lavorazione, conservati a titolo di documentazione, contesi oggi dai collezionisti. Gallé stesso chiama Vases parlants, i vetri sui quali incide versi e poemi, e Vases de tristesse i raffinati lavori tristi e scuri che riflettono l'umore del maestro, ormai ammalato. Le citazioni letterarie che figurano incise sui primi sono tratte da opere di poeti e scrittori di varie epoche: Virgilio, Dante, S. Francesco d'Assisi, Shakespeare, Chateaubriand, Prud'homme. Primeggiano però i versi dei simbolisti a cui Gallé è particolarmente legato per profonda ammirazione, Charles Baudelaire, Victor Hugo, Robert de Montesquiou, Maurice Maeterlick, Jean-Jacques Grandville, Paul Verlaine. I vases de tristesse, anche definiti vases noires, sono quelli che alla fine del secolo il maestro progetta ispirati per lo più al misterioso universo sottomarino, con la presenza di alghe, conchiglie, molluschi e stelle marine; una delle opere più celebri: Les feuilles des douleurs passées, esposta nel 1903, sta quasi a significare una preghiera del maestro. I primi vases noires e incisi con versi sono Deux fois perdue meglio conosciuto come Orphée et Eurydice e L'Amour chassant le papillon noir, entrambi creati su disegno dell'amico e collaboratore Victor Prouvé, esposti nel 1889, capolavori ora conservati al Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Tra il 1890 e il 1904, tutta una serie di vasi e qualche paralume vengono stupendamente montati a motivi naturalistici in bronzo dorato o in ferro forgiato nello stesso atelier della Garenne, dove vengono eseguite le garnitures per i mobili. Altre opere vengono elaborate con arricchimenti di materiali preziosi a Parigi dai migliori orefici del momento, tra questi Gérard Sandoz, Emile e Lucien Falize (ai quali si devono, verso il 1896, due montature in oro su vasi di Gallé per lo Zar Nicola II di Russia), Bonvallet, Froment-Meurice, Cardeilhac e si ha notizia di una montatura floreale in argento di Fabergé per un vaso ordinato dal granduca russo Serghei. Inoltre tutte le opere fornite ai fratelli Pannier, proprietari del negozio A L'Escalier de cristal al n.1 della rue Aubert di Parigi, venivano da questi sistematicamente montate alla base e guarnite sul corpo del vaso con bronzi dorati o vermeil. Tra le opere più celebri, arricchite con montature in metallo: Cattleya vaso offerto nel 1890 dal governo francese alla zarina di Russia in visita a Parigi; il vaso Cornet, di qualche anno dopo, L'étoile du matin, L'étoil du soir; la lampada Chauvessouris verso il 1900; Re Salomone anfora realizzata nel 1900; e la lampada Les Coprins forse la sua ultima opera, inquietante e famosa, realizzata nel 1904 in vetro soffiato e modellato in forma, a cinque strati intagliati, raffigurante tre funghi giganti (h. 83 cm) montati su base e griffe in ferro battuto. Di questa lampada ordinatagli dal magistrato di Nancy suo amico Henri Hirsch, si conoscono quattro esemplari, di cui uno è attualmente conservato al Musée de l'Ecole de Nancy. Anche per tutti gli altri pezzi di maîtrise Gallé fa eseguire sempre cinque esemplari del modello per non correre il rischio di irrimediabili fessure o crepe nelle varie fasi di ricottura e raffreddamento; si possono perciò avere due o più modelli uguali fra di loro, ma con leggere varianti nei dettagli, secondo la sensibilità e l 'abilità dell 'artigiano verrier. Pezzi unici invece sono quelli commemorativi che il maestro crea su ordinazione, come il vaso del 1893 per il settantesimo anniversario di Louis Pasteur, ora alla Fondazione Pasteur a Parigi; o il vaso dedicato nel 1896 al fedele amico e collaboratore Victor Prouvé; oppure il vaso La Soude del 1903, omaggio delle autorità al chimico e industriale belga Ernest Solvay, ora al Musée de l'Ecole de Nancy. Al contrario di quanto si creda, Emile Gallé, a parte la decorazione delle ceramiche e dei vetri che dipinge nei primi anni della sua carriera, non esegue direttamente nessuna delle opere che idea, progetta e disegna, ma ne sorveglia la lavorazione e ne organizza la produzione con l'aiuto della sua stretta cerchia di collaboratori. Tra questi troviamo Victor Prouvé (1858-1943) pittore e disegnatore, figlio di Gengoult Prouvé, collaboratore di Gallé padre; entrato tredicenne nel 1874 negli ateliers della Garenne, diventa ben presto il braccio destro di Emile, progetta cartoni per la marqueterie in legno e disegna celebri vetri; suo è il ritratto di Emile Gallé dipinto nel 1892, ora al Musée de l'Ecole de Nancy. La lista prosegue con il principale decoratore, il valido Louis Hestaux (1858-1919), il capo decoratore Emile Munier, gli incisori Mercier padre e figlio, Rose Wild, Lang padre, Schmitbergen e Isaël Soriot, e altri artisti e artigiani che esplicano più tecniche, il pittore Paul Nicolas, gli scultori Uriot e Jacquot, Jean Cordier, Louis Diebold, Julien Roiseux, Ferdinand Schmitt e Auguste Herbst, infine il chimico Daniel Schoen. La maestranza conta nel periodo tra il 1890 e il 1904 ben 300 operatori. La produzione viene inviata ai rivenditori che ne fanno richiesta, tra questi la già citata maison "L'Escalier de cristal" di Parigi; inoltre Gallé ha un grande negozio a Nancy in rue de la Faïencerie ed un deposito di vendita a Parigi (dapprima al n. 34 della rue des Petites Ecuries aperto nel 1879, poi trasferito nel 1885 al n. 12 della rue Richer), diretto da Marcelin Daigueperce e, alla sua morte nel 1896, dal figlio Albert. La manifattura ha anche negozi in altri paesi: dal 1896 a Francoforte al n. 38 della Kaiserstrasse e a Londra dal 1901 al n. 13 di South Molton Street. Fra i suoi acquirenti vi sono musei e personaggi famosi, monarchi, noti mecenati e banchieri: Edmond Taigny, Léon Clairy, Germain Bapst, Henri Hirsch, Rothschild; il critico Roger Marx (1859- 1913) uno dei suoi primi ammiratori e collezionisti; l'esteta e poeta conte Robert de Montesquiou (1855-1921), il quale, entusiasta delle opere di Gallé, gli dedica alcuni suoi scritti e gli diventa grande amico, come dimostra la corrispondenza fra i due a partire dal 1887 . Collezionista raffinato, raccoglie opere del maestro in ceramica, ebanisteria e vetreria; lo introduce nella cerchia degli aristocratici parigini, tra cui la cugina contessa Greffulhe, considerata una delle più belle donne della nobiltà: per lei Gallé esegue nel 1890 la Coupe mystérieuse. Il maestro è invitato nei salotti più famosi, ha per amici intellettuali, musicisti e artisti, frequenta la principessa Bibesco, Anna de Noailles, la baronessa Rothshild, Sarah Bernhardt, i fratelli Goncourt, Verlaine, Rodin, Listz e Marcel Proust, che, conquistato dalla qualità dell'opera di Gallé, entusiasta, in più occasioni scrive nei cahiers romantiche considerazioni e inoltre gli commissiona vasi da donare agli amici più intimi. Sono stati senz'altro la grande passione e il profondo amore per la natura ad indurre Gallé a far scolpire nel 1896 dall'ebanista Eugène Vallin il portale in rovere per le sue officine con la scritta: "Nos racines sontau fond des bois, au bord des sources, suries mousses", oggi nella collezione del Museé de l'Ecole de Nancy. Les Ecrits pour l'Art, di Emile Gallé, pubblicati postumi nel 1903 a Parigi e ristampati da Lafitte a Marsiglia nel 1980, riferiscono che la frase è tratta da un libro del 1866 di Jacobus Moleschott, seguace di Baudelaire, il poeta più amato dal maestro, che porta ai suoi occhi i colori della poesia. La nascita legale de L'Ecole de Nancy data 11 febbraio 1901 e vede in Emile Gallé il propulsore e l'inventore del movimento. Sotto quest'egida si raggruppano le industrie artistiche dell'Est della Francia (non si tratta del termine abituale di scuola che unisce o associa artisti). La finalità è quella di unire le energie isolate, fare sforzi comuni per far fronte alla scarsità di operai d ' arte, trattenendonella regione di Nancy gli allievi delle scuole locali e gli artigiani, di mettere in comunicazione i vari centri di produzione e di vendita delle industrie artistiche attraverso musei e scuole, di organizzare esposizioni. Lo statuto dell' Ecole de Nancy in effetti codifica in ritardo un movimento che era in sviluppo da un trentennio. Affermando il principio Unité de l'Art (a significare che al di là delle tecniche, conta la solidarietà fra l'artista e l'industriale, a salvaguardia della personalità e la libertà dell'operaio), asserisce che la "Natura" è la sola inesauribile fonte di rinnovamento per le arti decorative. Alla direzione della Società dell' Ecole de Nancy sono eletti Emile Gallé presidente, Antonin Daum, Louis Majorelle e Eugène Vallin vice-presidenti; e il Comitato direttivo riunisce 36 membri. Gallé, artista e uomo socialmente impegnato, è membro fondatore, e tesoriere, a Nancy della Lega dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino; in costante contatto con le personalità che hanno preso posizione a favore del capitano Alfred Dreyfus, tra cui Emile Zola, Louis Havet e Joseph Reinach. Quest'ultimo, noto avvocato e uomo di lettere, nonché Segretario del Comitato di difesa di Dreyfus, pubblica la cronaca dettagliata (in diversi volumi) su l'affaire. Gallé, per dimostrare ammirazione al suo operato, gli dedica il vaso Aux Hippocampes con con la scritta incisa "A Joseph Reinach, Emile Gallé-1901"- Vitam impedere Vero, ora al Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Gallé prende parte a moltissime mostre nazionali e internazionali che lo rendono celebre; all'estero presenta le sue opere a Chicago, Bruxelles, Stoccolma, Dresda, Londra, Francoforte, Darmstadt, Pietroburgo, Karlsruhe, Anversa, Torino e Saint-Louis. In Francia espone a Parigi, Strasburgo, Nancy, Nizza, Metz, Lione, Limoges, Bordeaux. Nel 1878 partecipa all'Exposition Universelle di Parigi con ceramiche e vetri; nel 1884, all' VIII Exposition de l'Union Centrale des Arts Décoratifs' "La Pierre, le Bois, la Terre, le Verre " di Parigi, ottiene due medaglie d'oro; nel 1889 all'Exposition Universelle di Parigi espone ceramiche, mobili e vetri, ed è premiato con un Grand Prix, una medaglia d'oro e una d'argento. L'anno Art Nouveaux per eccellenza, il 1900, è una grande data per lui. L'Exposition Universelle di Parigi lo vede impegnato in cinque sezioni differenti: l' Esposizione Retrospettiva del Centenario del XIX Secolo, il Museo del Centenario del Mobilio Francese, la Storia del Vetro Francese, la Cristalleria Francese e il Mobilio Francese Contemporaneo. Nella sezione Vetro allestisce uno spettacolare stand: nel centro pone un forno da vetraio con ammucchiati tutti intorno i resti di numerosi pezzi filati o rotti in corso di fabbricazione, sulla fronte del forno vi è la scritta: "Mais si les hommes sont méchants faussaires et prévaricateurs, à moi les mauvais démons du feu! A fin que tous apprennent à pratiquer la justice". La mostra chiude con un grande trionfo per Gallé: egli ottiene due Grand Prix, uno per la vetreria, l'altro per il mobilio, e vengono premiati con la medaglia i suoi migliori collaboratori. Nel 1900 il maestro incomincia a manifestare i primi segni della leucemia, ma i medici giustificano il suo stato di salute con il surmenage per le fatiche dell ' Esposizione. Peggiorato nell'autunno del 1902, è curato in una clinica del Lussemburgo: all'inizio del 1904, ricoverato in Svizzera, viene a conoscenza del male che lo affligge. Malgrado la malattia, negli ultimi quattro anni, alternando periodi di riposo a momenti di febbrile attività creativa, realizza le opere più belle ed originali. Muore il 23 settembre 1904 a soli 58 anni. La sua firma resta nella storia dell'arte del vetro quella di un geniale artista le cui straordinarie realizzazioni hanno segnato il gusto di un'epoca e costituito un punto di riferimento per i contemporanei. Dopo la sua morte, la vedova Henriette Gallé, affida la direzione degli établissements al genero, il dottore Paul Perdrizet. La manifattura che riguarda la ceramica si arresta di lì a poco. Da questo momento la sola tecnica praticata per i vetri rimane l 'incisione ad acido fluoridrico. La produzione dei primi anni si rifà quasi esclusivamente ai modelli precedenti; fino alla fine del 1906 i pezzi si contraddistinguono per l'aggiunta di una piccola stella accanto al nome, in omaggio al maestro scomparso. Se Emile Gallé ha dedicato pochi progetti all'illuminazione, ora, con la divulgazione della corrente elettrica, Perdrizet dedica a questo settore grande importanza, sfornando graziose serie di lampade da tavolo, plafoniere con o senza tulipe, veilleuses e veilleuses brule-parfums: con la produzione in serie di vasi, coppe, flaconi e soliflores dà notevole incremento alla firma, che nel 1914 conta 450 lavoranti. I temi restano ispirati alla flora e alla fauna; sono di questo periodo le riprese dei vasi inerenti ai paesaggi dei Vosgi dalle montagne e dai laghi blu. L'attività si arresta durante il periodo della prima guerra mondiale, per riprendere alla fine del 1918 ancora con vetri incisi ad acido a due strati - molto più raramente a tre - ornati principalmente con piante e paesaggi; fra i decori panoramici, sono di questo periodo il vaso che rappresenta il Lago di Como con in primo piano un pavone sotto un eucalyptus, e il vaso che rappresenta la Baia di Rio de Janeiro con il caratteristico Pain de sucre. Nel 1920 alla direzione dell'établissement si aggiungono altri due generi di Gallé: Jean Bourgogne e Robert Chavalier; si realizza ora la serie degli Orsi polari, ed inoltre si dà avvio a tutta una produzione (presentata all' Exposition Internationale des Arts Décoratifs di Parigi del 1925) nella più bella tecnica del periodo postumo, quella dei magnifici soufflées. I vetri così chiamati sono soffiati come gli altri a due o tre strati in una forma di metallo incernierata che ne consente l'apertura, ma con la differenza che la matrice, in corrispondenza dei decori, è decisamente più incavata, quindi dà ai pezzi rilievi esteriori molto evidenziati che, sottoposti a più riprese alla morsura dell'acido captano e ritengono la luce. Tra queste belle esecuzioni ci sono le lampade e i vasi color rosso porpora o violetto, con ornamento di rododendri, e quelli decorati con le clematidi; i curiosi vasi decorati tutt' intorno da elefanti, e tutta una serie di vasi - e qualche plafoniera - a decoro di frutti: aranci, uva, ciliege, ribes, prugne, sorbe, mele o pomodori; vi sono i vasi con i decori di crocus, tulipani, giacinti, fucsie, rose canine, narcisi, belle di giorno o fiori di melo. Se la produzione Gallé, negli anni Venti-Venticinque, nonostante non si sia allineata all'Art Déco, può contare su una clientela ancora fedele allo stile floreale, con il 1930 incontra notevoli difficoltà di vendita; i gusti sono radicalmente cambiati, gli établissements non sanno adattarsi ai canoni estetici del momento e, nel 1931, sono costretti alla definitiva chiusura; invece il negozio a Nancy fino al 1935 continua la vendita dei modelli giacenti in magazzino. Da questo momento la firma va incontro a tempi oscuri, il nome Gallé è diventato sinonimo di cattivo gusto e paccottiglia. Bisogna aspettare l'anno 1954, quando viene messa all'asta la più importante collezione di vetri Gallé appartenuta al re Farouk d'Egitto, per ridestare l'interesse delle opere Gallé da parte dei critici e del mercato dell'arte. Il prestigio di questo nome risale ai vertici a partire daI 1960, quando incominciano le mostre retrospettive in musei e gallerie private, in Europa, in America e in Giappone. Nelle molteplici firme, stilizzate, incise in creux o in rilievo a cammeo, in orizzontale o in verticale alla Japonica compare sempre "Gallé". Franco Borga (Leggilo su Arte Ricerca)