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martedì 25 agosto 2015
Trieste di ieri e di oggi
Nel Gruppo " TRIESTE DI IERI E DI OGGI " troverete :
Fotografie, Dipinti, Stampe, Cartoline, Numismatica e Medaglistica, Notizie storiche e molto altro di Trieste e del suo Territorio.
venerdì 3 luglio 2015
Arturo Rietti, la persecuzione dell'espressione e del pensiero. L'applicazione delle leggi razziali nelle arti - Mauro Moshe Tabor
Arturo nasce in una Trieste in cui le lingue più disparate si mescolano quasi a creare un lessico comune variegato ed incredibilmente ricco. La famiglia Riettis appartiene alla media borghesia ebraica, il padre è un commerciante affermato di cittadinanza greca mentre la madre appartiene ad una agiata famiglia ebraica triestina.
Nel 1863, anno della nascita di Arturo, Trieste è un cantiere a cielo aperto. L’imprenditoria ebraica vede il suo massimo splendore. Gli anni del ghetto e delle segregazioni sono lontani. Le poche famiglie che nel 1696, anno di creazione del Ghetto ebraico di Riborgo vi erano state segregate, sono aumentate notevolmente di numero e continuano ad aumentare quasi esponenzialmente grazie alla azzeccata politica mercantile di Carlo II, portata avanti ed ampliata da Maria Theresia e successivamente dal figlio Giuseppe II. Con la fine del monopolio della Serenissima si apre il sipario sul palcoscenico del golfo di Trieste, il Porto Franco diventa il catalizzatore degli interessi di numerosissime famiglie ebraiche europee che eleggono Trieste a loro dimora.
L’ottocento è il secolo della grande metamorfosi di questa città, il piccolo borgo medievale triestino diventa durante il XVIII secolo ma in modo palese durante il XIX una città portuale di grossa importanza e dalle mille potenzialità. Dopo la brevissima dominazione francese, Trieste, nuovamente austriaca diventa il motore di una macchina con la testa a Vienna e le eliche nelle acque del nostro golfo.
La Comunità ebraica triestina collabora per tutto il XVIII e fino alla seconda metà del XIX secolo alla costruzione e potenziamento dell’Emporio rimanendo però chiusa nella sua religiosità ed endogamia. La fine del XIX secolo vede invece un brusco cambiamento con un veloce allontanamento dalle tradizioni religiose di una grossa parte dei giovani ebrei triestini che, raggiunto un adeguato livello socioeconomico nonché culturale, sposano cause politiche che li portano automaticamente ad allontanarsi dalla fede dei padri. Gli ultimi decenni dell’ottocento vedono la nascita dirompente del movimento irredentista e nazionalista che diventa in molti casi il “nuovo credo” di una parte dell’intellighenzia ebraica triestina.
La trasformazione dell’identità ebraica tra otto e novecento è una delle cose più difficili da spiegare. L’ebreo triestino, ebreo austriaco all’anagrafe, sposando la causa nazionalista italiana smette l’aggettivo “ebreo” ed anche quello “austriaco” e veste con molta disinvoltura quello di “italiano” tout court. Fa propria quindi un’identità culturale e linguistica quale denominazione della sua persona (nella maggior parte dei casi la lingua italiana era acquisita solamente da una o due generazioni).
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domenica 7 giugno 2015
Arturo Rietti a Trieste tra negozi di Belle Arti e gallerie private - Francesca De Bei
Fin dagli esordi Arturo Rietti riuscì a esporre con continuità a Trieste e i suoi progressi furono puntualmente registrati dalla stampa locale, orgogliosa di un pittore che “sempre più rivelava una forte personalità e faceva onore alla sua città natale”.
Nonostante frequentasse l’affollato Circolo Artistico cittadino e partecipasse alle sue mostre, organizzate a partire dal 1890, più tardi anche nelle diverse sedi della Permanente, Rietti, come molti artisti triestini a cavallo fra i due secoli, dovette molta della sua fama locale alle botteghe “di quei mercanti del piccolo commercio artistico cittadino” senza la cui mediazione i collezionisti non avrebbero fatto “la gran parte dei loro affari”. Anche a Trieste, come a Venezia e Milano, mostre personali e collettive si tenevano con una certa regolarità nei negozi “di Belle Arti” e negli spazi espositivi temporanei ricavati presso ditte o case d’asta che fornivano una vetrina alle personalità non ancora in vista dell’ambiente cittadino. Tali luoghi, vere passerelle dell’arte che transitava a Trieste e che valeva la pena di acquistare, anticiparono le vere e proprie gallerie private divenendo luoghi di aggregazione e punti di riferimento per gli artisti e i collezionisti, crearono un vero mercato artistico di cui beneficiarono anche le raccolte pubbliche e, con la loro costante attività, lasciarono il segno nel tessuto culturale della città.
Tale segno è ben evidente ripercorrendo i successi della bottega Schollian, all’epoca “unico asilo degli artisti triestini che volessero esporre al pubblico qualche opera loro” e, come già affermato nella recente monografia sul pittore[8], prima sede espositiva del giovane Rietti “che veniva di tanto in tanto a Trieste per lasciar qualche gemma”. Pepi Schollian, assiduo frequentatore del Circolo Artistico e padre tutelare degli artisti, era il proprietario del noto negozio di Belle Arti di via del Ponterosso, in cui tutti, fino al 1906, avevano fatto i primi scontri con il pubblico e avevano visto, alle loro esposizioni, una folla che “faceva ressa innanzi al negozio per entrare e per vedere i lavori” dei giovani che erano sulla bocca di tutti. Nell’antro dello Schollian, una “botteguccia d’antiquario e di decoratore, dove s’accatastava una moltitudine di roba d’ogni genere e d’ogni tempo”, si erano succedute, dagli anni Settanta dell’Ottocento, generazioni intere di artisti e, tra di essi, anche il giovane Rietti che, dal 1887 in poi, mise qui in mostra le sue opere. Ricorda infatti Benco che “s’erano serrate le file dei vecchi artisti per sbarrare la strada ad Arturo Rietti, che era uscito dal suo nembo come un astro di singolare splendore; pretendevano non sapesse dipingere se non le teste (ma quali teste!), dimenticando che negli anni più giovani s’era presentato da Schollian una prima volta con impressioni di città nordiche sotto la neve”. L’artista infatti, dopo aver presentato ritratti e piccoli paesaggi, nel luglio del 1888 aveva esposto “tre piccole scenette di città, tre vedute di quei luoghi settentrionali, ove la neve è sempre compagna nell’inverno”.
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sabato 16 maggio 2015
L’amicizia tra Arturo Rietti e Italo Svevo - Barbara Sturmar
Arturo Rietti, Disegno preparatorio per il Ritratto di Livia Veneziani. Collezione privataAgli inizi del Novecento «il maestro del ritratto» Arturo Rietti ha già ottenuto numerosi riconoscimenti ufficiali e un discreto successo, tuttavia è assillato da alcune preoccupazioni di carattere finanziario, che tra il 1905 e il 1907 lo inducono a scrivere reiteratamente a Ettore Schmitz alias Italo Svevo. Grazie al matrimonio con Livia Veneziani lo scrittore vive agiatamente a Trieste, lavorando nella ditta dei facoltosi suoceri. Il pittore si sfoga, si confida e condivide con il letterato le amarezze, che in quegli anni avvelenano il suo animo. Svevo legge con attenzione queste missive, risponde puntualmente, dimostra empatia, si rivela comprensivo, sostiene (anche economicamente) l’amico, gli ricorda che suo fratello lo «cerca per certe commissioni [….] importanti.» Rietti definisce i familiari del romanziere gente «di prim’ordine» enfatizzando le dicotomie tra i loro stili di vita e la precarietà contingente della sua situazione: anni vissuti tra Brescia, Milano, Venezia e Trieste, nell’auspicata speranza di riscattarsi da quella fastidiosa indigenza. Tuttavia grazie ai numerosi viaggi la formazione dell’artista è in costante aggiornamento, nel 1903 espone a Vienna, nel 1905 in Inghilterra, inoltre a partire dal 1897 il Maestro è ripetutamente presente alle Biennali di Venezia, dove Svevo lo omaggia con le sue visite «all’Esposizione» e si dispiace perché l’arte non permette a Rietti di ricavare la stessa «felicità» che dona a tutti i suoi fruitori. Parallelamente al Maestro, lo scrittore vive un travagliato periodo artistico: pochi anni prima ha pubblicato a sue spese due romanzi, senza ottenere quel successo che anelava di raggiungere grazie alla letteratura. Tormentato e costretto a guadagnarsi da vivere lavorando indefessamente per la ditta Veneziani, il letterato si sente vittima d’incomprensioni: i suoi parenti acquisiti - inquadrati esponenti dell’ottusa mentalità borghese - considerano il tempo che dedica alla scrittura un’inutile perdita di tempo. Svevo si confida con Rietti. Il 29 agosto 1906 i due amici s’incontrano a Trieste al Cimitero di Sant’Anna, in occasione dello scoprimento del busto marmoreo che ritrae Umberto Veruda, un’opera dedicata al compianto amico a due anni dalla morte da Giovanni Mayer. Rietti e Svevo assistono alla cerimonia e trascorrono parte della giornata insieme: il pittore accompagna l’amico nel suo studio, dove gli fa vedere i suoi lavori; Svevo ne rimane impressionato e li definisce «cose magnifiche». A più riprese lo scrittore dimostra il suo apprezzamento nei confronti del lavoro del ritrattista: ammirando il ritratto di Sybil Sanderson Svevo definì “squisita” l’arte di Rietti, talmente coinvolgente da farlo innamorare e impedirgli di distogliere lo sguardo dall’opera. Ritornando all’incontro del 29 agosto 1906, Rietti sostiene di sentirsi obbligato nei confronti del romanziere, per l’aiuto finanziario che gli aveva concesso un anno prima e che non aveva ancora onorato; Svevo lo rassicura, senza fargli alcuna pressione afferma che solo loro due sono a conoscenza della delicata questione. Probabilmente grazie al clima confidenziale della conversazione, Svevo ripercorre le tappe del suo difficile rapporto con il successo letterario e Rietti si permette di spronarlo, inducendolo ad assumere atteggiamenti propositivi, nonostante le annose occupazioni lavorative. È noto che per pareggiare i conti con l’amico, il Maestro dipinse l’anno successivo il ritratto di Livia Veneziani, moglie di Svevo, opera caratterizzata da una raffinata e vellutata morbidezza della pennellata.
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La letteratura triestina al tempo di Rietti - Cristina Benussi
Biglietto senza data di Giani Stuparich ad Arturo Rietti(fronte e retro). Roma, Archivio Rietti Di padre greco e di madre triestina, che avevano in comune l'origine ebraica, Arturo Rietti sembra incarnare il paradigma di quel cosmopolitismo sette-ottocentesco di cui la città conserva ancora il mito. Appartenente alla buona borghesia commerciale, è vissuto negli stessi anni di Svevo, sopravvivendogli di un quindicennio, e facendo a tempo a formarsi in quel mosaico culturale aperto a tensioni diverse, che permettevano la compresenza di simpatie irredentistiche e di immersione proficua nella civiltà asburgica. Tra l'acquisizione di una retorica patriottica e insieme l'attenzione verso una cultura mitteleuropea, tra questi larghi e fluidi confini, trovava dunque rifugio una borghesia operativa ed attenta eminentemente ai suoi traffici. Se poeti come Adolfo Leghissa o Riccardo Pitteri continuavano ad essere cantori in versi carduccian/ dannunziani di una romanità e latinità di cui riappropriarsi, e cara fin dai tempi di Rossetti e del suo «Archeografo», altri cominciavano a mettere in dubbio proprio quelle virtù risorgimentali borghesi dell'intraprendenza, della forza, nonché della coesione familiare care ai ceti dirigenti. L'operosità di mercanti e uomini d'affari come erano stati i vari Pasquale Revoltella, Karl Ludwig von Bruck, Guglielmo Sartorio, e tanti altri che avevano reso Trieste polmone dell'economia asburgica, agli occhi di alcuni scrittori mostravano i primi segni di quell'involuzione che avrebbe portato alla guerra. Svevo ne metteva precocemente in dubbio i presupposti, scrivendo Una vita (1892), romanzo interprete del disagio nei confronti di una civiltà patriarcale, con tutti i valori che essa comporta, e nello stesso tempo della difficoltà a rinunciare alle sue comode blandizie. Teso tra Darwin e Schopenhauer lo scrittore d'origine ebraica scopriva che il destino dell'uomo si gioca nello scontro tra le sue due possibili opzioni fisico-caratteriali, lottatore o sognatore, e nella sua capacità di vivere un'esistenza sganciata dai valori borghesi correnti. Quando scriveva Senilità (1898) pensava davvero che l'avvento di una cultura moderna e industriale, spregiudicata e onnivora, avesse messo fuori gioco quel paternalismo e perbenismo di facciata che non poteva più sostenere le richieste di una borghesia variamente stratificata, ma ormai stantia, che si cullava in fuggevoli illusioni di benessere e di progresso. La figura dell'inetto, incarnata da Alfonso Nitti e poi da Emilio Brentani, è portavoce di valori umanitari che vorrebbero disgregare quei rapporti utilitaristico basati sulla reciproca volontà di dominio: è un sogno che illumina il cuore, ma che, seppur realizzato, sarebbe inattuale. Altro ci vuole a muovere la macchina poderosa dell'economia moderna.
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sabato 25 aprile 2015
BUDDHISMO tra ARTE e CULTO - Arte Ricerca
Il Buddismo, nel suo diffondersi dall'India, abbracciando venticinque secoli di storia e decine di culture, rappresenta nel mondo un patrimonio artistico-culturale di incommensurabile varietà e vastità.Nascita del Buddhismo Il Buddhismo o Buddismo, nasce in India nel VI secolo a.C. (datazione controversa), traendo origine dagli insegnamenti di Siddhartha Gautama, e si basa fondamentalmente sulle Quattro nobili Verità e sull'Ottuplice Sentiero. Più in generale, il termine Buddhismo comprende anche l'insieme di tradizioni, pratiche e tecniche spirituali e devozionali che si sono evolute nei secoli successivi (dall'Hīnayāna al Mahāyāna, poi al Vajrayāna o tantrismo), nel Sud-est asiatico e in Estremo Oriente, dalle differenti interpretazioni dell'insegnamento originario ed assorbendo in sé parecchi elementi induisti (brahmanici, shivaiti, visnuiti, ecc.).
Propagazione del BuddhismoIl Buddhismo si è diffuso in molti paesi dell'Asia centrale a nord, la Cina, la Corea e il Giappone a est, l'Indocina e l'Indonesia a sud-est, determinando una considerevole unificazione spirituale. Secondo le circostanze storiche di un dato periodo o di una data regione, in questi paesi stranieri il buddhismo ha preso forme differenti, dovute anche all'inevitabile fusione con determinati elementi indigeni, tipici dei paesi che li accoglievano e li assimilavano. Tali trasformazioni o deformazioni della forma «originaria», con elementi del paese straniero, sarebbe in parte dovuta a cattive letture dei testi, al suo carattere tardivo o popolare, o alla necessità di accordare l'insegnamento del Buddha con forme tradizionali locali troppo radicate. Ogni rappresentazione, ogni insegnamento orale o scritto, subisce inevitabili trasformazioni con il tramandarsi da una generazione all'altra, con il mutare delle mode rappresentative, dal migrare da un paese a quelli vicini. Trovandoci al cospetto di un insegnamento vecchio decine di secoli, in qualsivoglia periodo intermedio è stata possibile la riscoperta di tratti e personaggi ormai desueti, stimolando sostituzioni, sovrapposizioni, amalgame e collegamenti, anche senza una preservazione della provenienza geografica o del contesto culturale.
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giovedì 23 aprile 2015
FONTANA ARTE - Franco Deboni
Esterno del negozio Fontana Arte in via Montenapoleone a Milano, 1956 circa.Fontana Arte rappresenta un unicum nel panorama delle Arti Applicate del XX° secolo, non solo in Italia, ma nel mondo. In un arco di tempo di poco più che un trentennio, divenne la più straordinaria azienda specializzata nell'uso dei cristalli, applicati all'illuminazione e agli arredi, caratterizzati da modernità di concezione ed esecuzione perfetta. Tre sono stati gli artefici di questo straordinario successo, che in qualità di direttori artistici si sono susseguiti alla sua guida: Giò Ponti, cui va il merito di avere, per primo, intuito le enormi potenzialità progettuali del cristallo, applicate ai nuovi sistemi di illuminazione e agli arredi, e specialmente il fatto di avere scoperto il genio creativo di Pietro Chiesa, e di averlo voluto al suo fianco nella direzione della Fontana Arte. Pietro Chiesa, il vero artefice del successo internazionale, uomo di straordinaria cultura artistica, capace di spaziare dal modernismo più all'avanguardia, alla decorazione più pura e raffinata, e creatore di uno straordinario staff di artigiani che fecero della Fontana Arte la loro bandiera, e che furono in grado di realizzare prodotti modernissimi, con criteri di perfezione esecutiva degni della più alta tradizione rinascimentale. Max Ingrand, che entrò alla Fontana Arte in un momento di particolare crisi, dopo la scomparsa di Chiesa e i danni del periodo bellico, e che riuscì a farla risorgere appieno, aggiornando le produzioni e conducendola nel mondo del design, quale oggi noi concepiamo, senza per questo tradire l'eredità di quanti l'avevano preceduto. LEGGI TUTTO SU ARTE RICERCA
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