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martedì 15 luglio 2014
I FALSI NELL'ARTE - Parte seconda
Durante il Rinascimento, molti pittori tra quelli di maggiore successo hanno assunto apprendisti che si formavano copiando le opere e lo stile del maestro. Poiché all'epoca era l'apprendista a dover pagare per la propria formazione a "bottega", sovente le opere realizzate da questi venivano vendute a rimborso dell'apprendistato. Questa pratica, generalmente considerata un lecito tributo, produceva anche opere che con il trascorrere del tempo sono state erroneamente attribuite al maestro stesso.
Dopo il Rinascimento, a seguito della crescente prosperità della classe media venne a crearsi una forte domanda per l'arte, portando ad un aumento del valore di questi oggetti, a dipendere anche dal nome dell'artista. Per identificare le loro opere, i pittori cominciarono a marcarle con iniziali e monogrammi; questi segni, successivamente si evolsero in firme. Con l'aumentare della domanda di opere fecero la loro comparsa sul mercato anche le falsificazioni di marchi e firme, tanto da divenire un'autentica piaga per gli artisti più famosi.
Nel Medioevo, a causa del crescente interesse per le reliquie cristiane, vennero prodotte un'infinità di frammenti e chiodi della Croce, culle del Bambino Gesù e ossa di Santi.
Nel XIV° secolo, vennero create molte opere d'arte che imitavano sculture greche e romane, vendute per autentiche a collezionisti, nobili e clero.
Quasi tutti gli artisti, agli inizi o durante la loro carriera, hanno realizzato delle copie di opere importanti o nello stile di qualche illustre maestro. Nel 1496, Michelangelo realizza un Cupido dormiente che antichizza per il mercante Baldassare del Milanese, il quale lo cedette al cardinale Riario di San Giorgio, che scoperta la frode ne pretese il rimborso.
Il napoletano Colantonio, maestro di Antonello da Messina, si distinse nell'imitazione di dipinti fiamminghi, genere particolarmente apprezzato ai tempi; Luca Giordano riprodusse Tiziano e Tintoretto; Giuseppe Guerra, allievo del Solimena, per scagionarsi ed evitare il carcere quale ladro di reperti archeologici, dovette confessare di essere un falsario di pitture pompeiane.
sabato 12 luglio 2014
IL MANIFESTO PUBBLICITARIO
Anticamente (dai Sumeri agli Egiziani ai Romani) gli spazi murali erano un ottimo richiamo per avvertire i cittadini delle nuove disposizioni statali o per confermare norme già in vigore. La realizzazione del manifesto cartaceo – grazie all’introduzione della litografia – ha permesso di portare alla ribalta un artista come il francese Henri De Toulouse-Lautrec. Le sue ‘invenzioni’ illustrative hanno contribuito alla nascita di un nuovo mezzo di comunicazione, surclassato poi dalle novità tecniche sempre in crescendo. Infatti con l’affermarsi della civiltà industriale si usarono testi più abbreviati e disegni più ampi, finché si giunse all’immagine simbolica contemporanea. Il manifesto come foglio di carta stampata é legato all'invenzione della litografia per la riproduzione delle opere d'arte (1793) che ne permise la diffusione in serie a colori.. Le grandi illustrazioni influenzarono i lavori del XX secolo, dal settore pubblicitario alla produzione industriale.
Dopo la prima guerra mondiale gli artisti del Bauhaus e dei gruppi d'avanguardia sperimentarono altri metodi come il fotomontaggio. Da questa scuola, fondata per risolvere i problemi del rapporto tra arte ed industria, sorsero realizzazioni surrealiste e razionalistiche. Dal 1920 la riproduzione fotomeccanica ne trasformò la tecnica e la stampa. In Italia dal 1896, le Officine Grafiche Ricordi usarono cartellonisti di valore che, pur proseguendo nello stile liberty, cercarono sintesi di un gusto più moderno. Create nell'ambiente delle Corti (per un pubblico di raffinati aristocratici dei quali riflettono i gusti fastosi), le opere degli artisti manieristi appaiono caratterizzate dal culto per l'eleganza formale. Questa tecnica si affermò a Roma nei primi decenni del Cinquecento per poi diffondersi a Mantova, Venezia, Milano, Cremona e Firenze dove – per la corte medicea – furono attivi Vasari e Cellini. Attraverso le incisioni ed i disegni, diffusi dagli artisti viaggiatori, la tecnica italiana si diffuse in Europa distinguendosi nei grandi centri culturali. Il manifesto attuale comparve nell’Ottocento in seguito alla rivoluzione industriale. I primi esemplari per reclamizzare i prodotti industriali erano costituiti dal solo testo, quello a colori fu invece utile al mondo dello spettacolo: i primi esempi furono realizzati a Parigi; una città ricca di teatri e ritrovi nonché capitale dei movimenti pittorici. Attraverso le loro opere, il manifesto delinea le sue caratteristiche fondamentali. Toulouse-Lautrec in particolare conferì al genere un’impronta personalissima trasferendo nei suoi lavori i personaggi e l’atmosfera dei quadri. Verso il 1890 questo genere si imponeva con caratteristiche definite e con una grande tiratura: dalla Francia si diffuse in Europa e negli Stati Uniti parallelamente allo sviluppo industriale e commerciale. In Italia la storia del manifesto è affidata alle officine grafiche Ricordi fondate nel 1896. Già i primi artisti del cartellone pubblicitario capirono l’esigenza di distaccarsi dallo stile illustrativo e scoprono la sintesi di gusto più moderno che caratterizza il messaggio pubblicitario moderno.. Nei primi decenni del XX secolo, si affacciano nel panorama italiano autori importanti convinti che “la soluzione grafica deve rendere impossibile la dissociazione dell’idea dalla forma”. Severo Pozzato, in arte Sepo, fondò una scuola del manifesto a Livorno (suo è il noto panettone Motta). Il cane a sei zampe dell’ENI appare su tutte le strade d’Italia. Negli anni Venti e Trenta avviene la trasformazione tecnica nell’esecuzione e nella stampa del manifesto, che influenzerà inevitabilmente anche l’aspetto estetico dei lavori. Si abbandonano la litografia e la cromolitografia e si passa alla fotomeccanica.
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giovedì 10 luglio 2014
I FALSI NELL'ARTE - INSIDIE DEL SETTORE ANTIQUARIO

lunedì 20 maggio 2013
Tappeto d'Arte - Alessandra Doratti
Per il profano, il tappeto persiano è solitamente il tappeto per eccellenza e, in quanto tale, gli si attribuiscono prestigio, alta considerazione e una buona dose di luoghi comuni. L'esemplare di qualità deve quindi essere caratterizzato da nodi fittissimi e da un aggrovigliarsi di arabeschi floreali. È una visione estetica deformata, che deriva dall'enorme confusione generata dalla produzione moderna la quale, non avendo nulla di artistico da proporre, pone l' accento solo sulle qualità tecniche (il numero di nodi) e di conseguenza sulle ore di lavoro impiegate. Per lo studioso e il collezionista occidentale la produzione persiana della fine dell'800 viene invece vista con una certa sufficienza e considerata unicamente quale copia minore degli antichi originali safavidi e quale prodotto commerciale adatto soltanto all'arredamento.
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Il tappeto anatolico Kilim - Alessandra Doratti
Per molti anni si è creduto che i kilim anatolici fossero una sottospecie dei tappeti annodati, insomma tappeti più comuni, certamente inferiori sul piano estetico. I kilim invece, opere ragguardevoli per spessore simbolico e culturale, si differenziano dai tappeti "normali" per quantità di caratteristiche sostanziali: anzitutto sono tessuti con la tecnica dell'arazzo; in secondo luogo perché le iconografie sono molto particolari, con ascendenze nelle tradizioni di ciascuna tribù produttrice. Infine, kilim autentici possono essere definiti soltanto quelli anatolici, tessuti a strisce verticali che vengono poi cucite tra loro (al contrario dei kilim caucasici, che sono sempre tessuti in un pezzo unico, e che sono chiamati "palas", e dei kilim persiani, anch'essi tessuti in un pezzo unico, chiamati "fars"). L'origine dei tappeti tessuti si perde nella notte dei tempi: sono stati trovati alcuni affreschi che li rappresentano, negli scavi archeologici di Catal Hükük, in Anatolia, databili addirittura tra il 6350 e il 5400 avanti Cristo. L'importanza di questi ritrovamenti è stata in un primo tempo offuscata dall'eccezionalità della struttura complessiva portata alla luce: uno dei più antichi esempi di civiltà avanzata, intendendo con ciò un vasto nucleo umano (Catal Hükük arrivò ad avere cinquemila abitanti) basato su un'economia differenziata, con classi sociali ben distinte e strutturate sulla divisione del lavoro, e con un potere statale legittimato ideologicamente. Proprio verso il tramonto della civiltà anatolica del neolitico, questa "età dell'oro", si cominciò a usare il kilim in sostituzione delle pitture murali, assorbendo quindi un patrimonio di simbologie che si è tramandato fino ai giorni nostri. L'integrità di questi contenuti, culturali, cromatici e formali, specifici di ogni tribù, a volte assai diversi gli uni dagli altri, è stata garantita attraverso quattrocento generazioni circa di tessitrici: essi costituiscono infatti importantissimi elementi di identità di ogni particolare gruppo e, quindi, di distinzione rispetto ai gruppi estranei.
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ARTE DEL TAPPETO - Spazio magico e storia culturale - Alessandra Doratti
L'origine è antichissima, il primo esemplare risale al 500 a.C., e forse affonda le sue radici nelle sconfinate pianure dell'Asia centrale. Ma è con l'avvento dell'Islam, nel VII sec., che l'arte del tappeto orientale segna l'inizio della nuova era, accomunando i popoli del nord Africa al Medio Oriente fino al centro dell'Asia e all'India, diversi per origini e formazione culturale, ma tutti legati all'ambiente desertico, dove il mezzo primario di sussistenza è la pastorizia. Nomadi e sedentari, pur con sistemi di vita profondamente diversi, trovano un punto di incontro nello spirito islamico e nell'arte del tappeto. Per i nomadi il tappeto è uno spazio magico, un territorio conosciuto e trasportabile che li difende dalle forze negative, dalle superstizioni, e al tempo stesso è un luogo di preghiera. È inoltre la manifestazione della loro cultura, per questo è annodato accuratamente e caricato di tutti questi simboli, quegli scongiuri, quelle formule grafiche che essi non possono esprimere attraverso altre forme artistiche quali l'architettura, la pittura e la scultura. Per i sedentari, invece, non è solo credo e tradizione, ma anche storia. I simboli arcaici diventano motivi arabescati di grande rilievo, il numero dei colori aumenta e la lana è di qualità sempre migliore. Lo sforzo è teso nel rappresentare l'armoniosità e la bellezza dell'Eden, il paradiso musulmano descritto come "un giardino attraversato da fiumi". I nomadi sono legati al ritmo quotidiano di un'esistenza condizionata non da regole scritte, ma consuetudinarie, cristalizzate da esperienze ataviche. E amano gli spazi infiniti. I loro tappeti sono un ripetersi di elementi uguali, definiti; immutabili. I sedentari, invece, preferiscono limitare lo spazio, incorniciarlo, ordinarlo verso un centro, e i loro tappeti sono architettati come splendidi giardini. Tutta l'arte del tappeto vive dello scambio tra queste due polarità raggiungendo livelli altissimi di creatività e di bellezza.
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mercoledì 8 maggio 2013
Leonardo da Vinci "Trattato della pittura"

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