lunedì 20 maggio 2013

Tappeto d'Arte - Alessandra Doratti

Per il profano, il tappeto persiano è solitamente il tappeto per eccellenza e, in quanto tale, gli si attribuiscono prestigio, alta considerazione e una buona dose di luoghi comuni. L'esemplare di qualità deve quindi essere caratterizzato da nodi fittissimi e da un aggrovigliarsi di arabeschi floreali. È una visione estetica deformata, che deriva dall'enorme confusione generata dalla produzione moderna la quale, non avendo nulla di artistico da proporre, pone l' accento solo sulle qualità tecniche (il numero di nodi) e di conseguenza sulle ore di lavoro impiegate. Per lo studioso e il collezionista occidentale la produzione persiana della fine dell'800 viene invece vista con una certa sufficienza e considerata unicamente quale copia minore degli antichi originali safavidi e quale prodotto commerciale adatto soltanto all'arredamento.
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Il tappeto anatolico Kilim - Alessandra Doratti

Per molti anni si è creduto che i kilim anatolici fossero una sottospecie dei tappeti annodati, insomma tappeti più comuni, certamente inferiori sul piano estetico. I kilim invece, opere ragguardevoli per spessore simbolico e culturale, si differenziano dai tappeti "normali" per quantità di caratteristiche sostanziali: anzitutto sono tessuti con la tecnica dell'arazzo; in secondo luogo perché le iconografie sono molto particolari, con ascendenze nelle tradizioni di ciascuna tribù produttrice. Infine, kilim autentici possono essere definiti soltanto quelli anatolici, tessuti a strisce verticali che vengono poi cucite tra loro (al contrario dei kilim caucasici, che sono sempre tessuti in un pezzo unico, e che sono chiamati "palas", e dei kilim persiani, anch'essi tessuti in un pezzo unico, chiamati "fars"). L'origine dei tappeti tessuti si perde nella notte dei tempi: sono stati trovati alcuni affreschi che li rappresentano, negli scavi archeologici di Catal Hükük, in Anatolia, databili addirittura tra il 6350 e il 5400 avanti Cristo. L'importanza di questi ritrovamenti è stata in un primo tempo offuscata dall'eccezionalità della struttura complessiva portata alla luce: uno dei più antichi esempi di civiltà avanzata, intendendo con ciò un vasto nucleo umano (Catal Hükük arrivò ad avere cinquemila abitanti) basato su un'economia differenziata, con classi sociali ben distinte e strutturate sulla divisione del lavoro, e con un potere statale legittimato ideologicamente. Proprio verso il tramonto della civiltà anatolica del neolitico, questa "età dell'oro", si cominciò a usare il kilim in sostituzione delle pitture murali, assorbendo quindi un patrimonio di simbologie che si è tramandato fino ai giorni nostri. L'integrità di questi contenuti, culturali, cromatici e formali, specifici di ogni tribù, a volte assai diversi gli uni dagli altri, è stata garantita attraverso quattrocento generazioni circa di tessitrici: essi costituiscono infatti importantissimi elementi di identità di ogni particolare gruppo e, quindi, di distinzione rispetto ai gruppi estranei.
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ARTE DEL TAPPETO - Spazio magico e storia culturale - Alessandra Doratti

L'origine è antichissima, il primo esemplare risale al 500 a.C., e forse affonda le sue radici nelle sconfinate pianure dell'Asia centrale. Ma è con l'avvento dell'Islam, nel VII sec., che l'arte del tappeto orientale segna l'inizio della nuova era, accomunando i popoli del nord Africa al Medio Oriente fino al centro dell'Asia e all'India, diversi per origini e formazione culturale, ma tutti legati all'ambiente desertico, dove il mezzo primario di sussistenza è la pastorizia. Nomadi e sedentari, pur con sistemi di vita profondamente diversi, trovano un punto di incontro nello spirito islamico e nell'arte del tappeto. Per i nomadi il tappeto è uno spazio magico, un territorio conosciuto e trasportabile che li difende dalle forze negative, dalle superstizioni, e al tempo stesso è un luogo di preghiera. È inoltre la manifestazione della loro cultura, per questo è annodato accuratamente e caricato di tutti questi simboli, quegli scongiuri, quelle formule grafiche che essi non possono esprimere attraverso altre forme artistiche quali l'architettura, la pittura e la scultura. Per i sedentari, invece, non è solo credo e tradizione, ma anche storia. I simboli arcaici diventano motivi arabescati di grande rilievo, il numero dei colori aumenta e la lana è di qualità sempre migliore. Lo sforzo è teso nel rappresentare l'armoniosità e la bellezza dell'Eden, il paradiso musulmano descritto come "un giardino attraversato da fiumi". I nomadi sono legati al ritmo quotidiano di un'esistenza condizionata non da regole scritte, ma consuetudinarie, cristalizzate da esperienze ataviche. E amano gli spazi infiniti. I loro tappeti sono un ripetersi di elementi uguali, definiti; immutabili. I sedentari, invece, preferiscono limitare lo spazio, incorniciarlo, ordinarlo verso un centro, e i loro tappeti sono architettati come splendidi giardini. Tutta l'arte del tappeto vive dello scambio tra queste due polarità raggiungendo livelli altissimi di creatività e di bellezza.
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mercoledì 8 maggio 2013

Leonardo da Vinci "Trattato della pittura"

Agli inizi del Cinquecento, Leonardo Da Vinci, prototipo universale dell'artista scienziato, ha già completato gli scritti del Codice Vaticano Urbinate 1270, anche noto come Libro di pittura, o Trattato della pittura di Lionardo da Vinci. Il Trattato, un'opera composita, compilata postuma da uno o più allievi, contiene vari precetti, teorie e appunti in cui vengono enunciati i principi filosofici e ideali della pittura. Per Leonardo, la pittura è scienza - equiparandola alle arti speculative quali filosofia, poesia e teologia, vi applica le discipline matematiche e geometriche - conduce il lettore nell'esercizio della "filosofia del vedere", cioè nel cogliere la Natura tramite l'osservazione di quei fenomeni fisici, matematici e geometrici che ne determinano la percezione visiva.
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sabato 27 aprile 2013

BUDDHISMO tra ARTE e CULTO

Nascita del Buddhismo
Il Buddhismo o Buddismo, nasce in India nel VI secolo a.C. (datazione controversa), traendo origine dagli insegnamenti di Siddhartha Gautama, e si basa fondamentalmente sulle Quattro nobili Verità e sull'Ottuplice Sentiero. Più in generale, il termine Buddhismo comprende anche l'insieme di tradizioni, pratiche e tecniche spirituali e devozionali che si sono evolute nei secoli successivi (dall'Hīnayāna al Mahāyāna, poi al Vajrayāna o tantrismo), nel Sud-est asiatico e in Estremo Oriente, dalle differenti interpretazioni dell'insegnamento originario ed assorbendo in sé parecchi elementi induisti (brahmanici, shivaiti, visnuiti, ecc.). Corea 400-300 a.C. Nepal: 400-300 a.C. Ceylon: 200-100 a.C. Asia centrale: 200-100 a.C. Cina: 100 a.C. Indonesia: 400-500 d.C. Siam: 600-700 d.C. Giappone: 500-600 d.C. Tibet: 600-700 d.C. Birmania: 800-900 d.C. Mongolia: 1500-1600 d.C. Il Buddhismo si è diffuso in molti paesi dell'Asia centrale a nord, la Cina, la Corea e il Giappone a est, l'Indocina e l'Indonesia a sud-est, determinando una considerevole unificazione spirituale. Secondo le circostanze storiche di un dato periodo o di una data regione, in questi paesi stranieri il buddhismo ha preso forme differenti, dovute anche all'inevitabile fusione con determinati elementi indigeni, tipici dei paesi che li accoglievano e li assimilavano. Tali trasformazioni o deformazioni della forma «originaria», con elementi del paese straniero, sarebbe in parte dovuta a cattive letture dei testi, al suo carattere tardivo o popolare, o alla necessità di accordare l'insegnamento del Buddha con forme tradizionali locali troppo radicate. Ogni rappresentazione, ogni insegnamento orale o scritto, subisce inevitabili trasformazioni con il tramandarsi da una generazione all'altra, con il mutare delle mode rappresentative, dal migrare da un paese a quelli vicini. Trovandoci al cospetto di un insegnamento vecchio decine di secoli, in qualsivoglia periodo intermedio è stata possibile la riscoperta di tratti e personaggi ormai desueti, stimolando sostituzioni, sovrapposizioni, amalgame e collegamenti, anche senza una preservazione della provenienza geografica o del contesto culturale. Queste trasformazioni costringono ad una triplice classificazione: cronologica (per epoche); geografica (per paesi); sociologica (per ambienti, scuole, ecc.). Con la morte del Buddha, avvenuta attorno al 478 a. C. (sempre secondo la maggior parte delle fonti), il Buddhismo varca i confini dell'India per mezzo di monaci itineranti che ne divulgano gli insegnamenti e fondano monasteri. Aśoka (Ashoka) Moriya il Grande (Pataliputra, 300 a.C. – 230 a.C. ca.) sovrano dell'impero Maurya (comprendeva l'odierno Afghanistan, parte della Persia, Bengala e Assam, dopo essersi convertito al Buddhismo ne sostenne la diffusione, instaurando il regno del "Dharma", "la Legge". Il sovrano riprende antiche concezioni di un ordine cosmico che deve necessariamente ritrovare un corrispondente ordine morale sulla terra, quale espressione di una norma universale. Il Buddhismo, legittimato dal potere di stato, acquista maggior capacità di espansione. Mahinda, figlio di Aśoka, per volere del padre, si recherà nello Sri Lanka per tentare di convertire la gente del posto. La leggenda vuole, che Mahinda partito assieme ad altri missionari, portasse con sé delle reliquie, tra le quali la ciotola del Buddha e testi del canone buddhista. Gli eventi che seguirono l'arrivo di Mahinda e l'incontro con il re Devānampiya Tissa, rappresentano una delle leggende più importanti della storia dello Sri Lanka. Il re Devānampiya Tissa, secondo figlio di Mutasiva (re di Anuradhapura), uno dei primi governanti dello Sri Lanka, mise a disposizione dei monaci il monastero di Mahāmeghavana nella città di Anurādhapura, che in seguito divenne il monastero di Mahāvihāra. Successivamente Mahinda fondò a Mihintale il monastero di Cetiyagiri Vihāra. Mahinda, oltre ad aver introdotto il Buddhismo nello Sri Lanka, compreso l'ordine monastico femminile, vi apportò fondamentali elementi della cultura indiana, quali l'architettura e la letteratura. Altri missionari, al fine di diffondere il Buddhismo, verranno inviati nella zona dell'Himalaya, presso re greci, nel Gandhara e nel Kashmir. Il Buddhismo assunse quella forma che viene detta mahāyāna (grande veicolo), avviandosi alla conquista dell'Asia. Vengono divulgati nuovi testi in sanscrito ibrido (Edgerton), i quali, pur introducendo altri principi e orientamenti, vengono attribuiti al Buddha, "parola del Buddha". In un documento risalente ca. al 140 a.C, in cui si riassume il dialogo fra il monaco Nāgasena ed il re Milinda (Menandro), vi si ritrovano i nuovi principi fondamentali del Buddhismo dopo che questo abbiano trovato un adattamento al nuovo ambiente storico e culturale presso le popolazioni indo-greche. Sotto il regno di Kaniska (II secolo d.C.), favorevole al Buddhismo compare la prima raffigurazione del Buddha su una moneta. Sotto l'impero Gupta (320 d.C.), il Buddhismo continua a diffondersi, come si evince da documenti epigrafici: Kumāragupta I (414-455 ca.) fonda il Monastero di Nālandā, a cui farà seguito quattro secoli più tardi quello di Vikramasila. Questi due monasteri in particolare saranno di grande importanza per la diffusione del Buddhismo sia oltre l'Himālaya sia nell'India, dove i missionari introdurranno i motivi e gli ideali dell'arte Pāla e Sena. Dall'Asia centrale il Buddhismo arriva fino nella Cina nel primo secolo d.C.; fra il 150 ed il 180 un principe iraniano traduce alcuni testi dando vita alla comunità buddhistica di Lo yang. Con An-shih-kao iniziò un grande periodo di traduzione della letteratura buddhista, che vide un andirivieni di missionari e di pellegrini tra India e Asia centrale, con un intenso scambio culturale ed artistico. In Cina verranno adottati motivi artistici indiani e centro-asiatici, in India il Buddhismo assume caratteri cinesi; il fenomeno genera un grande rinnovamento filosofico, religioso ed artistico nella cultura dei due grandi paesi. Dalla Cina il Buddhismo si diffuse in Corea dal quarto secolo, ad opera di monaci giunti da Hsi-an-fu. Nel VI secolo, il Buddhismo approdò in Giappone, ai tempi dell'imperatrice Suiko (593-628), e si diffuse, convivendo con lo Shintoismo. Nel Tibet, il Buddhismo vi giunse tra il VII e l'VIII secolo, ma si diffuse a partire dall'XI secolo, sostituendosi quasi completamente alla religione dei Bön-po. Dal Tibet, il Buddhismo migrò in Mongolia ai tempi di Qūbilāy (1250-1370). Buddhismo e Induismo Nel Buddhismo la figura di Buddha è quella del Maestro, colui che indica la via, una guida, un uomo illuminato, non un dio. Una posizione che rimarrà immutata con il trascorrere dei secoli. Gli dei, seppur dotati di meravigliosi poteri, risultato di opere meritorie compiute nel passato, vengono concepiti come meno privilegiati rispetto all'uomo, per essere nell'ambizione e nell'intento di conseguire grandi gesta. Gesta, che seppur grandi, sono caduche, illusorie e che il tempo farà appassire, dimenticare. L'uomo, nella sua condizione di semplicità, può sperare di giungere allo stato di "nirvana", supremo bene. Il mahāyāna è ricco di molteplici forme divine, che simbolizzano il potere dell'Eterno infinito di generare e dissolvere dal vuoto "sūnyatā" (sanscrito, anche shunyata; Pali: suññatā), che si riferisce all'assenza di esistenza inerente in tutti i fenomeni, complementare al concetto buddista di non-sé. Nell'Induismo, gli dei hanno una loro personalità, poteri e carattere propri, e interagiscono con le forze della natura e con l'uomo. L'uomo, si pone nel rapporto con queste divinità in uno stato di inferiorità, di timoroso rispetto, le venera e le contempla, invocandone intercessioni e miracoli, fino ad ottenere la redenzione attraverso l’esercizio dell’ascesi (tapas). Il Buddha, pratica la via dell'ascesi vanamente, infine riconosce che non è quella la strada da intraprendere per il nirvana. Nulla deve ricercarsi fuori dall'uomo stesso, non ci sono forze a lui superiori; la vita è una lotta che si gioca in lui, fra il bene ed il male, lo spirito e la materia, le passioni materiali e l'estasi dello stato nirvanico. Nessun dio può essere di aiuto, nessun dio gli è superiore, l'uomo soltanto può trovare la strada che lo conduce alla liberazione, alla condizione di buddhità.
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domenica 17 marzo 2013

LIBER: dal papiro all’i-Pad - Giuliano Confalonieri

LA STORIA DEL LIBRO
L'alfabeto è un insieme di segni grafici convenzionali che permettono la comunicazione orale e scritta. In base alle aree geografiche e culturali la forma linguistica ha assunto nel tempo un valore sociale tanto importante quanto è grande la necessità dell'uomo di ogni tempo di dialogare. Le primitive scritture pittografiche o ideografiche (disegni di oggetti o simboli), gli ideogrammi cinesi ed i geroglifici egiziani (furono proprio questi ad introdurre nell'area mediterranea l’idea di far corrispondere i segni alle parole), la scrittura cuneiforme e gli alfabeti diversificati di fenici, greci, italici, ebrei, siriaci e arabi, fino al più diffuso latino, furono altrettante tappe del cammino che ci ha portati alla video-lettura. L’incisione su tavolette d'argilla oppure su materiale vegetale flessibile, come il papiro o il sottile strato interno della corteccia di alcuni alberi (‘liber’), furono gli antenati del libro così come i fogli arrotolati intorno a cilindri (il nome latino ‘volumen’ deriva dal verbo ‘volvere’, avvolgere). Gli indiani usavano foglie di palma, i cinesi lasciarono le loro testimonianze scritte dapprima su tavolette di legno e poi su seta trattata: la xilografia è infatti il primo sistema di stampa conosciuto da loro molti anni prima dell’era cristiana (metodo usato in seguito in Europa per fabbricare carte da gioco, immagini religiose e i primi libri detti, appunto, xilografici). Nel Medioevo i monaci furono la forza primaria di un’attività che permetteva di tramandare, generazione dopo generazione, la scienza e la cultura del passato. Tra il IX e il XII sec. numerose officine di scrittura nei conventi si incaricarono del poderoso lavoro di copiatura dei testi con specialisti come lo ‘scrittore’, il ‘dettatore’, il ‘correttore’ e il ‘miniaturista’ che doveva decorare e illustrare il lavoro. La costosa pergamena fu poi sostituita dalla carta (manipolazione di steli vegetali o stracci), importata in Europa dagli arabi intorno all'XI sec. I cinesi, per incrementare e uniformare la produzione dei libri, avevano già sperimentato la stampa ‘tabellare’ incidendo testo e figure su una tavoletta di legno, poi inchiostrata e premuta su stoffa o carta. Con il nuovo materiale e con il sistema di duplicazione da un’unica matrice, il libro raggiunse per i costi accessibili anche le classi popolari. Quando la pergamena soppiantò questi supporti perché più pratica e meno costosa, i fogli quadrati o rettangolari furono legati insieme nei primi Codici manoscritti medievali. Pur mancando ancora una forma di riproduzione meccanica, già lo scriba e l'amanuense (spesso schiavi istruiti) ricopiavano gli originali per poterli rivendere o semplicemente per funzioni d'archivio. Ci sono così pervenute copie da papiri delle tombe egizie, dei rotoli romani di Ercolano, dei Codici Vaticani di Terenzio e dei famosi manoscritti ebraici del Mar Morto. Verso la metà del Quattrocento, l’idea di fondere in lega metallica le singole lettere dell’alfabeto - con la possibilità di una composizione duttile e praticamente illimitata di copie - diede origine alla moderna arte tipografica: l'inventore del processo di stampa a caratteri mobili, prima in legno poi in piombo, è ritenuto il tedesco Johannes Gutenberg, nato a Magonza tra il 1394 e la fine del secolo. L’inventore arrivò all’applicazione pratica del sistema di stampa in modo graduale a partire dal 1436 quando, in un laboratorio precario, effettuò i primi esperimenti segreti, rivelati tre anni dopo durante il processo intentato da Gutenberg agli eredi di uno dei suoi collaboratori, Dritzehn, per avere fatto scomparire del materiale predisposto per gli esperimenti (nel corso della sua lunga attività, Gutenberg ebbe molte traversie finanziarie e giudiziarie con soci ed usurai con relativo sequestro del materiale tipografico). Il suo lavoro più famoso rimane la prima stampa della Bibbia in duecento copie, nell’edizione delle ‘42 righe’, detta anche ‘Mazarina’ dal nome della biblioteca parigina nella quale nel Seicento fu ritrovato un esemplare. Terminata prima del 15 agosto 1456, l’opera era già in vendita nello stesso mese come testimoniano le date scritte sulla copia conservata alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Il ricavato della vendita dell’opera andò comunque ad esclusivo beneficio dei suoi due collaboratori: il socio Schoffer e l’avvocato usuraio Fust.
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martedì 5 marzo 2013

LEONARDO, PALLADIO E L'ARCHETIPO GEOMETRICO DELLA QUADRATURA DEL CERCHIO - Daniele D'Anza - Giorgio Catania

Il famoso disegno di Leonardo da Vinci
custodito a Venezia presso le Gallerie dell’Accademia, noto come L’uomo vitruviano, esprime l’ideale delle perfette proporzioni del corpo umano e al contempo registra la “fatale irruzione” di un’immagine archetipica. Esso richiama, nella correlazione armonica con le figure del quadrato e del cerchio, alcuni archetipi geometrici universali. È stato giustamente notato come in questo caso affiori la teoria alchemica del microcosmo e macrocosmo, per cui l’homo ad circulum e l’homo ad quadratum del De architettura di Vitruvio possono sovrapporsi (Elettrico). Riprendere Vitruvio, peraltro, vuol dire accogliere la sua concezione dell’ars muratoria, fondata sull’armonia delle proporzioni e sulla corrispondenza tra la natura e le costruzioni architettoniche: un’armonia insita nelle forme naturali che si riverbera in quelle ideate dalla mente umana. Colti misuratori dello stile antico, gli architetti rinascimentali ricercarono la “misura” del monumento, avvalendosi sovente di quella “divina proporzione” insita nella “sezione aurea” ed espressa in matematica nella serie di Fibonacci. Raccoglitori di un capitale culturale disperso, essi ricondussero l’uomo al centro dell’universo, non più slancio verso l’alto ma scavo interiore, nella consapevolezza che la scintilla divina si nasconda in natura, manifestandosi nella resa armonica delle proporzioni. Verità presenti nei testi di Vitruvio, il quale, nel suo libro sull’Architettura, a tal proposito, così si esprime: “L’ombelico è il centro del corpo umano, poiché se si collocherà l’uomo supino con le mani e i piedi distesi e si farà col compasso centro dell’ombelico, tirando un circolo, le dita d’ambo le mani e dei piedi distesi toccheranno la circonferenza […]. Del pari trovasi nel corpo la figura quadrata, perché se dalla base dei piedi si misurerà fino alla cima del capo e quella figura sarà rapportata alle mani distese, si troverà la larghezza uguale all’altezza, allo stesso modo di quei piani che sono esattamente quadrati”.
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