sabato 16 maggio 2015

L’amicizia tra Arturo Rietti e Italo Svevo - Barbara Sturmar

Arturo Rietti, Disegno preparatorio per il Ritratto di Livia Veneziani. Collezione privata
Agli inizi del Novecento «il maestro del ritratto» Arturo Rietti ha già ottenuto numerosi riconoscimenti ufficiali e un discreto successo, tuttavia è assillato da alcune preoccupazioni di carattere finanziario, che tra il 1905 e il 1907 lo inducono a scrivere reiteratamente a Ettore Schmitz alias Italo Svevo. Grazie al matrimonio con Livia Veneziani lo scrittore vive agiatamente a Trieste, lavorando nella ditta dei facoltosi suoceri. Il pittore si sfoga, si confida e condivide con il letterato le amarezze, che in quegli anni avvelenano il suo animo. Svevo legge con attenzione queste missive, risponde puntualmente, dimostra empatia, si rivela comprensivo, sostiene (anche economicamente) l’amico, gli ricorda che suo fratello lo «cerca per certe commissioni [….] importanti.» Rietti definisce i familiari del romanziere gente «di prim’ordine» enfatizzando le dicotomie tra i loro stili di vita e la precarietà contingente della sua situazione: anni vissuti tra Brescia, Milano, Venezia e Trieste, nell’auspicata speranza di riscattarsi da quella fastidiosa indigenza. Tuttavia grazie ai numerosi viaggi la formazione dell’artista è in costante aggiornamento, nel 1903 espone a Vienna, nel 1905 in Inghilterra, inoltre a partire dal 1897 il Maestro è ripetutamente presente alle Biennali di Venezia, dove Svevo lo omaggia con le sue visite «all’Esposizione» e si dispiace perché l’arte non permette a Rietti di ricavare la stessa «felicità» che dona a tutti i suoi fruitori. Parallelamente al Maestro, lo scrittore vive un travagliato periodo artistico: pochi anni prima ha pubblicato a sue spese due romanzi, senza ottenere quel successo che anelava di raggiungere grazie alla letteratura. Tormentato e costretto a guadagnarsi da vivere lavorando indefessamente per la ditta Veneziani, il letterato si sente vittima d’incomprensioni: i suoi parenti acquisiti - inquadrati esponenti dell’ottusa mentalità borghese - considerano il tempo che dedica alla scrittura un’inutile perdita di tempo. Svevo si confida con Rietti. Il 29 agosto 1906 i due amici s’incontrano a Trieste al Cimitero di Sant’Anna, in occasione dello scoprimento del busto marmoreo che ritrae Umberto Veruda, un’opera dedicata al compianto amico a due anni dalla morte da Giovanni Mayer. Rietti e Svevo assistono alla cerimonia e trascorrono parte della giornata insieme: il pittore accompagna l’amico nel suo studio, dove gli fa vedere i suoi lavori; Svevo ne rimane impressionato e li definisce «cose magnifiche». A più riprese lo scrittore dimostra il suo apprezzamento nei confronti del lavoro del ritrattista: ammirando il ritratto di Sybil Sanderson Svevo definì “squisita” l’arte di Rietti, talmente coinvolgente da farlo innamorare e impedirgli di distogliere lo sguardo dall’opera. Ritornando all’incontro del 29 agosto 1906, Rietti sostiene di sentirsi obbligato nei confronti del romanziere, per l’aiuto finanziario che gli aveva concesso un anno prima e che non aveva ancora onorato; Svevo lo rassicura, senza fargli alcuna pressione afferma che solo loro due sono a conoscenza della delicata questione. Probabilmente grazie al clima confidenziale della conversazione, Svevo ripercorre le tappe del suo difficile rapporto con il successo letterario e Rietti si permette di spronarlo, inducendolo ad assumere atteggiamenti propositivi, nonostante le annose occupazioni lavorative. È noto che per pareggiare i conti con l’amico, il Maestro dipinse l’anno successivo il ritratto di Livia Veneziani, moglie di Svevo, opera caratterizzata da una raffinata e vellutata morbidezza della pennellata.
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La letteratura triestina al tempo di Rietti - Cristina Benussi

Biglietto senza data di Giani Stuparich ad Arturo Rietti (fronte e retro). Roma, Archivio Rietti
Di padre greco e di madre triestina, che avevano in comune l'origine ebraica, Arturo Rietti sembra incarnare il paradigma di quel cosmopolitismo sette-ottocentesco di cui la città conserva ancora il mito. Appartenente alla buona borghesia commerciale, è vissuto negli stessi anni di Svevo, sopravvivendogli di un quindicennio, e facendo a tempo a formarsi in quel mosaico culturale aperto a tensioni diverse, che permettevano la compresenza di simpatie irredentistiche e di immersione proficua nella civiltà asburgica. Tra l'acquisizione di una retorica patriottica e insieme l'attenzione verso una cultura mitteleuropea, tra questi larghi e fluidi confini, trovava dunque rifugio una borghesia operativa ed attenta eminentemente ai suoi traffici. Se poeti come Adolfo Leghissa o Riccardo Pitteri continuavano ad essere cantori in versi carduccian/ dannunziani di una romanità e latinità di cui riappropriarsi, e cara fin dai tempi di Rossetti e del suo «Archeografo», altri cominciavano a mettere in dubbio proprio quelle virtù risorgimentali borghesi dell'intraprendenza, della forza, nonché della coesione familiare care ai ceti dirigenti. L'operosità di mercanti e uomini d'affari come erano stati i vari Pasquale Revoltella, Karl Ludwig von Bruck, Guglielmo Sartorio, e tanti altri che avevano reso Trieste polmone dell'economia asburgica, agli occhi di alcuni scrittori mostravano i primi segni di quell'involuzione che avrebbe portato alla guerra. Svevo ne metteva precocemente in dubbio i presupposti, scrivendo Una vita (1892), romanzo interprete del disagio nei confronti di una civiltà patriarcale, con tutti i valori che essa comporta, e nello stesso tempo della difficoltà a rinunciare alle sue comode blandizie. Teso tra Darwin e Schopenhauer lo scrittore d'origine ebraica scopriva che il destino dell'uomo si gioca nello scontro tra le sue due possibili opzioni fisico-caratteriali, lottatore o sognatore, e nella sua capacità di vivere un'esistenza sganciata dai valori borghesi correnti. Quando scriveva Senilità (1898) pensava davvero che l'avvento di una cultura moderna e industriale, spregiudicata e onnivora, avesse messo fuori gioco quel paternalismo e perbenismo di facciata che non poteva più sostenere le richieste di una borghesia variamente stratificata, ma ormai stantia, che si cullava in fuggevoli illusioni di benessere e di progresso. La figura dell'inetto, incarnata da Alfonso Nitti e poi da Emilio Brentani, è portavoce di valori umanitari che vorrebbero disgregare quei rapporti utilitaristico basati sulla reciproca volontà di dominio: è un sogno che illumina il cuore, ma che, seppur realizzato, sarebbe inattuale. Altro ci vuole a muovere la macchina poderosa dell'economia moderna.
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