giovedì 29 novembre 2012

Blog ArteRicerca: IL CASTELLO ARAGONESE DI ISCHIA

Blog ArteRicerca: IL CASTELLO ARAGONESE DI ISCHIA: Superbo maniero, regali fastigi di epiche gesta, tetro carcere, lugubri celle...(1) A Ischia ci si va per fare i bagni, quelli di mare, ...

LEONARDO DA VINCI - Il disegno dell'Uomo Vitruviano - Silvia Gramigna

Un cerchio, un quadrato e, al centro, un'emblematica figura d'uomo. Chi non conosce questo straordinario disegno delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, noto come L'uomo vitruviano, di Leonardo da Vinci? Lo si incontra molte volte caricato dei più disparati significati: negli ambienti scientifici, nelle università, nelle palestre, sui frontespizi dei libri, persino su capi di abbigliamento... si può dire che esso sia negli ultimi anni stato assunto quale simbolo della civiltà occidentale. Tra pochi mesi poi il disegno diventerà familiare proprio a tutti perché lo vedremo riprodotto sulla moneta da un euro coniata dall'Italia. È forse il disegno più famoso del mondo. A che cosa si deve tale diffusione? Non certo al nome altisonante dell'autore, né tantomeno alla qualità esecutiva, anche se altissima. Vi sono altri disegni importanti di Leonardo, molto suggestivi e di qualità forse superiore al nostro... Nemmeno il soggetto raffigurato, le ideali perfette proporzioni del corpo umano secondo le indicazioni fornite da Vitruvio, risulta essere di grande interesse per l'uomo moderno. Inoltre, in altri disegni Leonardo ha trattato il tema dell'anatomia e delle proporzioni senza tuttavia raggiungere gli esiti di questo disegno. Certamente, la fortuna di un'opera ha motivazioni molto complesse e, a volte, misteriose, ma vorrei proporre una riflessione critica in chiave filosofica alla luce della quale l'opera assume un significato nuovo e quantomai profondo. Analizziamo dunque l'opera inquadrandola nel momento storico in cui essa è stata prodotta. Siamo alla fine del XV secolo, in pieno Rinascimento, gli anni della scoperta dell'America; Leonardo, erede della tradizione fiorentina quattrocentesca, che aveva impostato il problema della rappresentazione artistica come conoscenza, convinto che l'artista debba giungere all'esperienza più vasta e profonda possibile della realtà, non concepisce l'indagine scientifica in opposizione o disgiunta dall'operare artistico, ma come attività complementare nel perenne ampliamento delle conoscenze verso lo svelamento del vero. Nel nostro disegno lo scienziato e l'artista (mai come in quest'opera lo spirito scientifico e l'intuizione artistica hanno trovato migliore sintesi), verificando il testo classico di Vitruvio (De architectura) relativo alle misure del corpo umano, come unità di misura per la progettazione architettonica, rappresenta con estrema precisione un «homo bene figuratus». Questi si erge con forza, stabilità ed equilibrio: è l'uomo rinascimentale sicuro del suo esistere nel mondo e, come tale, è stato interpretato fino a oggi dalla critica. Ma, in verità, tale interpretazione appare riduttiva; infatti, se si considera la simbologia relativa al quadrato e al cerchio, il discorso si fa molto più interessante e complesso. LEGGI TUTTO SU ARTE RICERCA

Giovanni Paolo Panini: Consacrazione del cardinale Pozzobonelli - Agnese Serrapica

L’opera di Giovan Paolo Pannini giunse ai Musei Civici di Como tramite il legato Celesia: essa, infatti, già nota precedentemente e conservata nella villa Celesia di Grumello (Como), pervenne ai Musei Civici per lascito testamentario di Giulia Celesia nel 1955. Non sono segnalati i passaggi di proprietà dai Pozzobonelli, committenti e collezionisti, fino ai Celesia, discendenti probabilmente dal marchese Porro Carcano, nipote del Cardinale. L’opera risulta citata in un documento testamentario datato 1774 nella Camera d’Udienza di Palazzo Arcivescovile, probabilmente destinato proprio al suddetto nipote del Cardinale. La tela rappresenta il solenne ingresso di Giuseppe Pozzobonelli, arcivescovo di Milano, nella chiesa romana dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, in occasione della cerimonia della sua elevazione alla porpora cardinalizia, in data 21 luglio 1743, per mano di papa Benedetto XIV, che nell’opera compare seduto sul trono papale, posto innanzi all’altare maggiore, al culmine della navata. Il Pannini ha rappresentato il luogo dello storico evento con un accurato naturalismo: l’edificio raffigurato è infatti del tutto conforme a quello definitivo, che la chiesa assunse dopo gli interventi secenteschi (costruzione di tamburo e cupola) di Pietro da Cortona, ultimati nel 1619.
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DOMENICO BIGORDI DETTO IL GHIRLANDAIO - Giuliano Confalonieri

Nel dizionario della lingua italiana ‘ghirlanda’ è descritta come ‘corona di fiori o di fronde, diadema o cerchio’; la derivazione del soprannome di questo artista vissuto a cavallo tra il Quattrocento ed il Cinquecento derivano probabilmente dal decoro formale che lo caratterizza, ma soprattutto dall’attività del padre orafo che creava ghirlande per le acconciature delle gentildonne fiorentine. “Mi ghirlandano il crine” (Carducci), “Che sì d’un alto fiume si ghirlanda” (Ariosto), Ghirlandò le colonne (Foscolo): Domenico Bigordi detto Ghirlandaio (Firenze 1449/94) s’accostò alla pittura influenzato dalla tecnica e dallo stile di Raffaello. Il disegno preciso e la colorazione efficace delle sue opere lo inseriscono nel filone della pittura classica: una famiglia d’artisti – figlio e fratelli – che hanno lasciato importanti testimonianze della loro creatività. Il soprannome deriva dall’attività del padre orafo, il quale creava ghirlande per le acconciature delle gentildonne fiorentine. Dopo un periodo d’apprendistato nella bottega paterna, realizzò figure di Santi in una Pieve ed il ciclo d’affreschi a San Gimignano. Leggi tutto su Arte Ricerca

ANTONIO CANOVA: Amore e Psiche giacenti - Giuliano Confalonieri

Uno dei capolavori dello scultore trevigiano lascia attoniti per la bellezza raffinata dei corpi – pur nell’evidenza dell’atto passionale – e per l’equilibrio delle masse marmoree. Canova Antonio (Treviso 1757/Venezia 1822), figlio di uno scalpellino, acquisì le prime nozioni a Venezia frequentando l’Accademia. Trasferitosi a Roma, entrò in contatto con l’ambiente internazionale. Nei monumenti funebri esplicita lo stacco tra vita e morte, tra il contingente e l’eterno. Le opere più ammirate fin dall’inizio furono quelle a soggetto mitologico: Amore e Psiche, Venere e Adone, gruppi e figure di raffinata eleganza. L’epoca napoleonica segnò il culmine della fama dell’artista, poiché gli furono commissionate busti e statue, tra le quali quella del Bonaparte in nudità eroica e quella di Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice: la morbidezza del modellato e il riferimento ai sarcofaghi antichi e alle Veneri di Tiziano si fondono in un perfetto equilibrio di «bell’ideale» e «bello di natura». Il prestigio e la fama raggiunti consentirono allo scultore, nella veste di diplomatico della cultura, di ottenere, dopo la caduta di Napoleone, la restituzione all’Italia delle opere d’arte trafugate in Francia.
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martedì 27 novembre 2012

I VETRI DELLA MANIFATTURA LOETZ - Franco Borga

Nel 1879 è il nipote, il barone Max Ritter von Spaun a prendere le redini della vetreria; egli, modernizzandone i procedimenti, chiama alla direzione artistica il tecnico Eduard Prochaska, istancabile inventore di nuove tecniche e ottiene numerosi brevetti. Con la lavorazione di vetri imitanti le pietre semi-preziose, i marmorizzati e i venati, dà avvio ai decori detti Intarsia, fatti con inclusioni a caldo di serpentine o pastiglie di vetro colorato in un vetro chiaro, e Octopus, dalle differenti sfumature associate ai blu turchese, con ornamenti opalescenti ripresi ad oro. Verso il 1890 incomincia con le prime iridescenze di vetri con riflesso metallico, per giungere sul finire del secolo alla realizzazione del vetro Phänomen con applicazioni e inserti di filamento di vetro in parte metallizzati, simile al vetro di Tiffany e al famoso vetro Papillon, in numerose varianti e combinazioni di colori, caratterizzato da un decoro costituito da punti o placche iridescenti, evocanti l'aspetto delle ali di piccole farfalle. Nel decennio precedente il finire del secolo, esegue altri vetri battezzati Colombia, per l'immagine dedicata a Cristoforo Colombo, Pavonia un vetro ambrato, Alpenrot e Alpengrün vetri colorati chiari e luminosi, e ancora Rusticana e Pampas. Leggi tutto su Arte Ricerca

lunedì 26 novembre 2012

CONQUISTADORES - LA SCOPERTA DELLE AMERICHE - Giuliano Confalonieri

Colombo, Vespucci, Cortes, Pizarro
Il colonialismo è una delle tante conseguenze della prevaricazione in nome del potere e della ricchezza, tendenze molto spesso mascherate da fini religiosi. La politica di dominio perseguita dalle potenze europee su ampi territori dell’America, dell’Africa e dell’Asia, si è affermata in seguito alle esplorazioni geografiche. Giustificata sul piano morale come funzione civilizzatrice, apportò tremende sofferenze e stragi indifferenziate. La storia dei Conquistadores si ripercosse sull’intera Europa tanto che fu lo stesso Papa ad autorizzare con la Bolla Inter Caetera il tracciamento sulle carte della linea di demarcazione (raya) ad ovest dell’arcipelago delle Azzorre. Ciò suddivideva l’influenza sulle terre da assoggettare alla Spagna ed al Portogallo, con la raccomandazione che gli indigeni “dovevano essere trattati amorevolmente”. Nonostante questa paterna preoccupazione, i gruppi di frati che si trasferirono nel Nuovo Mondo per convertire gli indigeni innescarono una serie di coercizioni sovrapponendo le loro crudeltà a quelle dei compatrioti andati per razziare. Costretti al lavoro per costruire conventi, gli indios dovettero trascurare le coltivazioni: molti di loro morirono per le malattie importate, per le fatiche eccessive e per le punizioni spesso crudeli di chi li voleva evangelizzare: “la storia delle ‘sottane nere’ ha una qualità omerica. I missionari furono gli avventurieri del XVII-XVIII sec., gli eredi dei conquistadores dei primi tempi. Percorrevano grandi distanze, trionfavano dell’aspra natura e dell’infido selvaggio, compivano imprese stupefacenti, non si lasciavano fermare né dalle montagne né dai fiumi né dalla fame, dal freddo, dalla sete”. Leggi tutto su Arte Ricerca

mercoledì 14 novembre 2012

La Tavola Strozzi


La tavola Strozzi  è un olio su  “tavola”,  di 82 x 245 cm, rinvenuta nel 1901, a palazzo Strozzi, a Firenze.

Sin dal suo ritrovamento, si svilupparono dibattiti e diverse interpretazioni. L’unica cosa certa era costituita dal fatto che la tavola rappresentava la città di Napoli.

Alcuni studiosi, tra i quali anche Benedetto Croce, la interpretarono come una rappresentazione del trionfo navale in onore di Lorenzo de’ Medici, andato a Napoli nel 1479, per stipulare un trattato di pace con il re Ferrante d’Aragona.

Secondo un’ altra interpretazione, ritenuta poi storicamente più attendibile, e  accolta dalla maggior parte degli studiosi (e dallo stesso Croce, che riconobbe il suo errore) si tratterebbe invece del rientro trionfale della flotta aragonese dopo la vittoria riportata contro il pretendente al trono Giovanni d’Angiò, avvenuta al largo dell’isola d’ Ischia il 7 luglio 1465.

In origine, la tavola, secondo gli storici dell’arte, era la spalliera  di un letto disegnato da Benedetto da Maiano, toscano ( 1442/1497), architetto e scultore soprattutto di legno intagliato.

 Il dipinto sulla tavola, invece, fu datato tra il 1472/1473,  e si è  ritenuto che sia giunta a Napoli in quell’anno, insieme ad altri doni di Filippo Strozzi al re Ferrante d'Aragona.

Sull’autore della tavola ci sono stati molti dubbi e diverse attribuzioni, ma ne parleremo più avanti. Ora,  non guastano alcune brevi notizie sul periodo storico.

Il regno di Napoli e Sicilia, regnum utriuusque Siciliae, regno delle due Sicilie, era stato fondato nel 1130  da Ruggero II, il Normanno, con capitale Palermo e comprendeva oltre la Sicilia, tutta l’Italia meridionale fino ai confini con lo Stato pontificio.

Il regno normanno  passò  poi all’ l’imperatore Federico II, nipote di Ruggero, e poi per ultimo al figlio Manfredi e quindi al nipote Corradino, sconfitto a Tagliacozzo nel 1267 da Carlo d’Angiò che diede inizio alla dinastia francese degli angioini.

La capitale fu trasferita a Napoli, nel 1282, quando i Siciliani si ribellarono – i Vespri siciliani – e chiamarono in aiuto Pietro d’Aragona, che vantava sulla Sicilia diritti di eredità, avendo sposato una figlia di Manfredi, e nell’isola si formò un regno distaccato da Napoli sotto gli spagnoli Aragona.

Nel 1441, Alfonso d’Aragona, già padrone della Sicilia, assediò Napoli, dove regnava Giovanna II d’Angiò, e, con uno stratagemma, attraversando un antico acquedotto oramai in disuso, riuscì a penetrare in città e a conquistarla, riunificando di nuovo il regno.

Il re Ferrante, figlio di Alfonso, era salito al trono nel 1458: egli non era ben visto, il suo regno fu insidiato dai nemici esterni e dal malcontento interno.

I suoi nemici interni, i baroni, si erano collegati con quelli esterni, che facevano capo a Giovanni d’Angiò, discendente della casata angioina e pretendente al trono; e lo avevano chiamato in aiuto per prendere il comando  della rivolta, nel 1459.

La lotta durò più di cinque anni e malgrado i successi contro gli insorti, c’erano ancora sacche di resistenza: l’angioino si era rifugiato con i suoi seguaci nel castello dell’Isola d’Ischia.

Il regno meridionale era, all’epoca,  il più grande e più potente della penisola oltre ad essere l’unico regno, dal momento che gli altri stati italiani non avevano questa qualifica: i territori più grandi dopo quello potevano essere  la repubblica di Venezia e lo Stato del papa, mentre Lombardia e Toscana erano piccole realtà ducali e i Savoia  erano solo una ignota famiglia di una lontana  contea, in mezzo alle Alpi.

Giovanni d’Angiò si era rifugiato nell’isola d’Ischia, nel castello detto aragonese, ( Vedi il castello aragonese in  storia e storie blog spot oppure su artericerca.com), l’isola fu presa d’assalto e occupata. Il pretendente angioino, abbandonato il castello, fu sconfitto in una battaglia navale proprio nei pressi dell’isola, nel 1465.

Il regno Aragonese durò poco, sessant’anni, fino al 1503, quando tutto il territorio passò sotto il dominio diretto della Spagna.

 

Secondo gli studiosi, è all’episodio della battaglia navale a largo di Ischia, che si ispira l’autore della tavola, illustrando il rientro della flotta nel porto di Napoli, dopo la vittoria.

La paternità della tavola è dubbia  - si era fatto anche il nome di Leonardo da Vinci – ; sarebbe stata dipinta, con qualche dubbio, nel 1472, un periodo tranquillo dopo la tempesta di lotte interne e guerre esterne, per il regno e il re Ferrante.

Il dipinto è stato  attribuito invece a Francesco Rosselli, (1448-1513),un modesto e semisconosciuto pittore toscano,  più noto come incisore e cartografo, autore tra l’altro di altre opere analoghe come la veduta di Firenze detta della Catena, e di Palazzo Medici , che è considerato il primo esemplare nella storia della cartografia che rappresenta una città,  con tutti i suoi edifici e le strade e le piazze, a “ volo d’uccello”.

Altri, convinti che una simile opera doveva essere per forza di chi era di e a Napoli e, perciò,  conosceva molto bene la città, hanno parlato di un tal Francesco Pagano, pittore  napoletano di cui non si hanno molte notizie, o anche di Colantonio,  altro pittore vissuto alla corte degli Angioini e poi degli Aragonesi.

Comunque sia, la tavola offre all’autore l’ opportunità di  fornire l’immagine della città, dal mare, e se veramente era un dono rivolto al re, non c’è dubbio che era stata composta per celebrarne il potere, il governo e le vittorie.

I tanti studiosi dell’opera su una cosa sono d’accordo: l’opera non ha un grande valore pittorico, ma ne ha sicuramente uno storico, in quanto mostra l’aspetto della città nel XV secolo, la definirei una fotografia della città di quell’epoca.

In primo piano si vede  il lungo corteo delle navi che rientrano in porto. Si notino i particolari: le navi non sono tutte uguali, si vedono vascelli, galee e altre barche.

L’orizzonte  si sta schiarendo e ciò ha fatto pensare a una immagine di un rientro in porto all' alba; si vedono anche uccelli in volo.

Napoli appare, a prima vista, con una grande presenza di strutture militari:  i castelli ( castel dell’Ovo a sinistra di chi guarda, la imponente mole del Castel nuovo ( più conosciuto come maschio angioino, perché costruito da Carlo d’Angiò) al centro, alle spalle, sulla collina, il castello di S. Elmo, più a destra Castel Capuano ( per maggiori particolari vedi  “ Porta capuana” e “il Vomero” su giovanni attinà blogspot storia e storie), la cui mole emerge sulla fitta edilizia circostante.

Il re Alfonso, padre di Ferrante, aveva dato un grande impulso alla ricostruzione di tutti i castelli, trasformandoli in vere e proprie fortificazioni, anche per le nuove armi da fuoco che proprio in quegli anni facevano le loro prime apparizioni.

 In quel periodo infatti la città era messa alla prova – come detto prima - dalle ripetute rivolte baronali, che avevano fatto accantonare i progetti di riordino urbanistico,  concentrando le risorse in opere difensive.

 Il resto della città presenta ancora l’ antica struttura della originaria “polis” greco-romana,  racchiusa nella cinta delle mura con le torri di guardia, tutta situata ad oriente, nel centro, che oggi è detto antico,e si vede a destra di chi guarda la tavola, rispetto allo sviluppo successivo della odierna città. Si vedono anche  edifici religiosi risalenti all’età angioina, in primo luogo S. Chiara e, in basso a destra, sulla spiaggia, vicino alle mura e a una porta, persone che parlano e altre a cavallo.

Sulla sinistra, quasi al centro della tavola, la torre di S.Vincenzo, che era una specie di scoglio poi sotterrato dalle successive modifiche del porto, anch’esso fortificato, per la maggior difesa del porto.

Il Castelnuovo che appare  in primo piano, è rappresentato con minuziosa cura e sono perfettamente individuati e descritti i dettagli edilizi. Si vedono sulla parte orientale le torri di S. Giorgio e quella maestra, in primo piano, che appare più alta di come è ora, detta di ”Beverello”.

Beverello oggi è anche il nome del Molo, posto proprio davanti al castello.

Sono inoltre delineate,  con la massima cura, anche gli altri edifici, civili e religiosi e perfino  il Castello di S. Elmo,  sulla collina.

Non si esistevano  gli attuali quartieri di Chiaia e Posillipo, e  le colline del Vomero, di Posillipo e di Capodimonte,  appaiono verdi per gli  alberi e le piante, occupate solo da poche ville di campagne e piccoli villaggi rurali, mentre oggi sono piene di palazzi e condomini.                                             Da Castel nuovo a sinistra, verso Castel dell’Ovo si vede già un embrione di strada sulla spiaggia che doveva servire da collegamento tra le  fortezze per scopi difensivi:  lì oggi c’è via Partenope.

Malgrado la precisione e la cura profusa dall’autore, alcuni elementi del dipinto non mi sembrano perfetti: parlo delle proporzioni, ad esempio tra le persone, sia a piedi e ancor di più a cavallo rispetto alle mura,  o anche alle navi, mi riferisco al rapporto tra il Castel nuovo e il molo e tra questo e le navi che appaiono minuscole rispetto al resto. Forse perché si tratta di una ripresa dall’alto?

Ed è quì che sono nate anche molte discussioni e ipotesi, peraltro non ancora terminate: dove si era posto  l’autore, quando ha dipinto la tavola?

Gli storici dell’arte sono partiti, per tentare di spiegarsi la tecnica usata dall’autore,  dalla costruzione del faro, detto la Lanterna, eseguita durante il regno di Ferrante d’Aragona, sicuramente dopo la vittoria riportata contro i ribelli, negli anni ’80 del secolo.

La Lanterna, restò in funzione per secoli: la si vede bene nel dipinto ottocentesco di Anton van Pitloo,  e fu abbattuta solo nel 1932,  per far posto a i nuovi lavori di ristrutturazione di tutto il porto e della Stazione marittima.

Come mai questo faro non appare nel dipinto?   Non era stata ancora costruita?  L’autore ha dimenticato di inserirla o c’è un altro motivo?                                            

In base  ai soli elementi disponibili, la visione dall’alto, in un epoca in cui come è noto non c’erano aerei o altri oggetti volanti, e l’assenza della lanterna dal dipinto, qualche studioso – Roberto Taito, disegnatore, pittore e scultore, sul sito: studi di R. Taito sulla realizzazione della tavola Strozzi e sulle tecniche di disegni e dipinti di autori del XV, XVI,XVII secolo  -  ha ipotizzato l’adozione da parte dell’autore di una difficile tecnica di disegno che prevedeva, oltre al punto di vista reale, anche un punto di vista fittizio. 

La tecnica ,  dice, veniva utilizzata per disegnare scene con vista aerea a volo d'uccello quando non si aveva a disposizione una altura da cui osservare completamente la veduta dalla giusta distanza. In tal caso allora si sfruttava un alto edificio facente parte del panorama stesso (una torre, un tetto, un campanile, un faro etc.), e, in un secondo momento, veniva inserito artificiosamente nella veduta stessa. Così si otteneva una bella immagine a volo di uccello molto realistica che dava l'impressione di essere ripresa da un punto di vista aereo e da una posizione molto più arretrata e non meglio identificata proprio perché inesistente.                                                          

Stando a questa interpretazione, l'artista della Tavola avrebbe lavorato dall’alto della Lanterna, completando il dipinto senza inserirla nella veduta. Questo perché egli stava realizzando la ricostruzione storica di un fatto avvenuto alcuni anni prima, quando la Lanterna ancora non era stata ancora costruita. La Lanterna fu costruita tra gli anni 1481/1487, lontano quindi dagli avvenimenti dipinti nella tavola: di conseguenza anche la data della sua composizione, fissata, come si è visto al 1472/1473,   sarebbe spostata di almeno 10 anni dopo.

Altri documenti e studi si possono trovare sul sito dell’Università degli studi “Federico II°”, Dipartimento di discipline storiche “E.Lepore”, e altri siti che facilmente si possono rintracciare.

Al momento, mi sembra che,  in assenza di dati certi,  ogni ipotesi può essere considerata fondata o infondata, ma resta comunque teoria.

 Al di là di tutto questo, quel che è certo  della tavola, è  l’ indubbio valore storico dell’ immagine quattrocentesca della città di Napoli.

 

 

 

 




giovedì 1 novembre 2012

MUSEI DELLO SPETTACOLO - Giuliano Confalonieri

Anche chi opera nel settore dello spettacolo ha avuto la preveggenza di conservare ed esporre una nutrita serie di testimonianze che ne ripercorrono la storia raccontando alle nuove generazioni le idee, le avventure, i successi e le sventure di tanta gente. Molti generi, dal palcoscenico allo schermo agli artisti di strada, un mondo vissuto con il sudore e la capacità di mille e mille artisti che si sono confrontati con il pubblico: il teatro greco e l’epoca elisabettiana, la Commedia dell’Arte ed i ‘caratteri’ goldoniani, il cinematografo e la televisione, le dinastie circensi; un ventaglio di spettacoli che ha permesso la diffusione del divertimento e delle idee nonché il confronto tra ceti e società diverse. La tradizione dei cantastorie e dei mangiatori di fuoco, dei nani e della donna cannone, un mondo apparentemente romantico ma in realtà legato alla dura legge della “Strada” felliniana con Zampanò e Gelsomina. Pure i burattini fanno parte della troupe degli artisti di strada, simbolo povero di uno spettacolo popolare con radici antiche: ne parlano gli antichi e le cronache medievali ne riportano l’uso nelle chiese per sacre rappresentazioni o nelle corti feudali per intrattenimento. La biblioteca di Alessandria fu distrutta da un incendio, Roma raccolse e tramandò grandi nuclei di scritti, i monasteri riuscirono a conservare molti testi antichi e le dinastie (Visconti, Sforza, Malatesta, Estensi, Gonzaga, Medici) contribuirono a mantenere patrimoni librari inestimabili, tappe di un processo che nel tempo ha messo a disposizione di tutti un patrimonio culturale universale. Gli scrittori antichi riportano notizie sull’esistenza di biblioteche, alcune leggendarie o prive di sicuro riscontro, come quella di Anatolia (sec. XIV a.C.). Di altre invece si ha notizia certa: la biblioteca di Assurbanipal o quella, più famosa, Alessandria appunto, che nel corso della sua attività (284 a.C. - 47 a.C.) offrì un esempio di concezione moderna con il connubio della conservazione dei testi e della loro diffusione in copie manoscritte. Fu ancora merito dell’antica Alessandria d’Egitto destinare un edificio dedicato alle Muse per la raccolta e l’esposizione di oggetti di particolare significato o valore. In periodo rinascimentale fu Lorenzo il Magnifico a riproporre l’usanza dei Romani di raccogliere in appositi ambienti le opere d’arte, molte delle quali disperse o distrutte in epoca medievale. Mecenati come Sisto IV e la famiglia dei Medici sanzionarono poi una attività che sarebbe stata ampliata e resa importante nei secoli successivi. Al vocabolo ‘museo’ si abbina generalmente il significato di una raccolta statica, oggetti esposti senza la giusta collocazione ambientale e quindi inerti per la funzione loro destinata. Dobbiamo invece fare un sforzo di fantasia per immaginarli nel loro contesto originario, siano essi quadri, sculture, armature: ecco la polvere scomparire ridonando loro lucentezza, colore e movimento. La storia dell’architettura teatrale si evolve attraverso le civiltà con soluzioni diversificate in base alle esigenze e alle mode ma inalterato rimane il rapporto tra chi dà e chi riceve: l’Olimpico di Vicenza, la Scala di Milano e l’Arena di Verona sono soluzioni ambientali dentro le quali mutano le sensazioni ma non l’interscambio tra palcoscenico e platea. Nel Medioevo le pubbliche piazze fungevano da piattaforma per l’azione dei teatranti, durante il Rinascimento furono i palazzi aristocratici ad ospitare il vecchio ‘Carro di Tespi’ – leggendario trageda greco che girava l’Attica con un palcoscenico mobile – poi la genialità del Palladio e del Piermarini rivolse l’attenzione anche all’acustica, alla prospettiva, alla logistica di palchi, atri, logge, platee e golfi mistici. LEGGI TUTTO SU ARTE RICERCA